venerdì 27 gennaio 2012

Tema: La giornata della memoria.


“Stai zitto” disse lui “non è bene parlarne al telefono”. Adagiò la cornetta con la sua flemma proverbiale. Allentò la cravatta che gli stringeva il collo. Con gli occhi tristi di chi sa che dovrà passare un’altra serata da solo, versò del whiskey in un bicchiere basso e largo. Lasciò evaporare l’alcol e la stanza si riempì di aromi forti e intensi che si mescolarono al denso afrore di tabacco e acqua di colonia. Tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto, in una smorfia il singhiozzo e il dolor, ridi pagliaccio sul tuo amor infranto, ridi per quel che t'avvelena il cor! la sua aria preferita inondava la stanza di stucchi rococò. L’opera riusciva a trascenderlo e a trasfigurarlo. Svogliatamente scelse un libro dal secondo scanno della libreria. Ne Accarezzò lievemente il dorso della copertina nera partendo dal basso. Con l’indice destro arrivò fino all'angolo retto di quel volume e con un’agile mossa lo strappò alla sua posizione. Altri volumi si mossero scuotendosi dal loro posto. Cercavano un nuovo assetto quei libri, a coprire lo spazio vuoto lasciato dal loro compagno. Si abbandonò alla sua poltrona e aprì quel tomo “Il mento poggiato sulle braccia incrociate, l'uomo era disteso sulla terra bruna del bosco coperta d'aghi di pino. Sulla sua testa il vento investiva, fischiando, le cime degli alberi. In quel punto il versante del monte si addolciva ma un poco più in giù precipitava rapido e l'uomo poteva vedere la traccia nera della strada incatramata che, serpeggiando, attraversava il valico. Parallelo alla strada correva un torrente e giù, sulla sponda del valico, l'uomo vedeva una ruota idraulica e l'acqua scrosciante della chiusa, bianca sotto il sole estivo”. Il rumore acuto di vetro infranto rimbombò in cortile. Alzatosi con le sopracciglia aggrottate scostò le tende bianche di lino per guardare; sui suoi occhi era calato il sentore di una profezia che sta per diventare certezza. È che non si abituava mai ad attimi di serenità. Aveva visto molti andarsene e lui era rimasto. In quel liceo dove insegnava latino e greco gli volevano bene in molti. Aveva molti amici su cui contare. Il libro era finito sul pavimento. Giaceva indisturbato e dall’ultima pagina era comparsa una piccola linguetta. Un triangolo isoscele fuoriusciva dalla linea retta del sovracopertina. Incuriosito afferrò quella carta indisciplinata. Una piccola fotografia raffigurava Piazza San Marco. Le sinuose forme della Basilica erano interrotte da piccioni che si alzavano in cielo e mani scomposte di braccia scoperte che salutavano qualcuno che era dietro la macchina fotografica. Nel retro compariva la dedica “Voglio farti ubriacare e tirarti fuori il fegato e metterti un buon fegato italiano e farti ritornare un uomo. ps. ti amo”. Fu il primo sorriso di quella giornata. Il disco aveva finito il suo giro. Bevve con foga il resto del whiskey. La portinaia lo aveva avvertito che quella notte sarebbe successo qualcosa. Lei certe cose le sapeva perché le intuiva. O comunque le scopriva da sola. E anche se non le avesse scoperte gliele avrebbero dette. E sapeva anche di lui, ne era certo. E un brivido percorse la sua schiena e si divertiva quasi a immaginare la donna che inorridiva al solo pensiero. E con la voce cacofonica e rozza avrebbe gridato “Invertito!”. “Che si fotta quella bagascia” e rise ancora, e di gusto per giunta, versandosi altro whiskey. Jack lo aveva conosciuto a Venezia, quando insegnava lì. Era rimasto impressionato da quell’americano che amava l’Italia e che lì viveva. Gli aveva passato i libri di uno scrittore emergente, Ernest Hemingway, ed era diventato il loro confessore e confidente. Avevano anche convissuto insieme perché si sa, quando hai conosciuto il miele non puoi più viverne senza. Poi di colpo le cose erano cambiate. La loro clandestinità diventava claustrofobia fatta di bottoni di camice, valige da chiudere, telefonate brevi e discrete, niente corrispondenza, patte di pantaloni serrate.
Mangiò svogliatamente del formaggio accompagnate da un tozzo di pane. Quella cravatta che indossava era stato un suo regalo per un compleanno o un anniversario, non ricordava bene. Si ricordava benissimo però di quelle cosce possenti e villose. Fremette all'idea e bevve altro whiskey. Sapevano tutti di quello che accadeva a chi era come loro, e a tanti altri. Dicevano “ebrei, ebrei!” ma poi dentro ci stavano altri che ebrei di certo non erano. Ma che poteva farci? Ma che potevano farci tutti? Era così che andavano le cose. Sbarrando persiane, stringendo asole e bottoni, serrando patte e barricando porte. Sperando che non tocchi a noi. Ogni giorno iniziava così e finiva nello stesso modo in cui era iniziato. La scuola era l’unica cosa che aveva. Tutte le mattine passava il Notaio Annigoni che lo portava a scuola e poi, finite le lezioni, lo riportava a casa. Aveva i suoi libri certo. Ma Jack gli mancava. Si sentiva incompleto. Aveva la stessa sensazione di chi subisce un’amputazione. C’era il formicolio, il sentore di avere quel braccio o quella gamba e istintivamente correre ad averne certezza con una mano. E puntualmente trovarsi a toccare uno sterile moncherino. Era andato in America ed almeno lui era al sicuro. Si sentivano al telefono ogni santo giorno ma per un semplice ciao. Perché così doveva essere. Perché sperava ancora che nessuno venisse a bussare alla sua porta e portarlo via. Lavò svogliatamente gli utensili che giacevano nel lavandino agognando anche lui di lavarsi sotto acqua calda e sapone che sapeva di casa e toletta. E forse sì, si sarebbe toccato, abbandonandosi a pensieri lascivi, gustando baci da rubare e patte che finalmente sarebbero esplose. Riposizionò la puntina del suo giradischi e di nuovo la stanza prese le sembianze di un palchetto, o di un palcoscenico e avrebbe voluto tingersi la faccia da clown e ridere di ciò che gli avvelenava il cuore. “Che mi avvelena il fegato” pensò. Si strappò la cravatta dal collo e cominciò lascivamente a sbottonarsi la camicia. Dondolandosi e sorridendo. Al terzo bottone due fortissimi colpi batterono alla sua porta. Prese il libro e ne strappò l’ultima pagina che piegò in quattro e mise nella tasca destra dei pantaloni. Si rimise la giacca e, aperta la porta di casa, vide due uomini vestiti di nero. Nel retro di un camioncino aprì quel foglio e lo strappò in mille pezzi. “Ogni morte d'uomo mi riduce, perché io faccio parte dell'umanità. E, dunque, non chiedere mai per chi suona la campana. Essa suona per te”. Le parole che non lesse, ma che conosceva già.


VB

21 commenti:

  1. cambierei solo il titolo: In memoria della giornata...
    GD

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    1. grazie...
      non piace neanche a me il titolo. volevo solo che fosse chiara la tematica sin dall'inizio...

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  2. Non so come dirtelo, ma è propRio bello! Solo che non volevo usare una parola cosi' banale per dirtelo, allora ho pensato che magari avresti preferito un complimento del tipo: " è un post alcolicamente bilanciato e gradevole"

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    1. " è un post alcolicamente bilanciato e gradevole"
      è uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto!

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  3. FO ...bello! un titolo potrebbe essere: "Le parole dell'altra memoria". TOGA

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    1. Caro TOGA, purtroppo l'autore di questo testo non sono io ma VB, ahahahah, ne ho di strada da fare prima di riuscire a concepire post come questo!
      Ciao!

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  4. questo si che è ricordare. uno stile inconfondibile. bravissimo ! AG

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  5. grazie ragazzi!
    siete fantastici.

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  6. si,si,si. . . proprio bello!
    matali

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  7. Bello. Si. Fatto bene. C'è una parte centrale superba!
    CLA

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  8. Bellissimo, riesci a rendere vivo il personaggio e il mondo attorno a lui, sembra di entrare nella scena di un film.

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  9. Memoria sia.
    Bravo.

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  10. lo leggo solo adesso. Scopro anche di avere un omonimo. E che Vito mi piace sempre di più. Sai che scoperta.

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    1. Omonimo? Significa che quel R.L. non sei tu?

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    2. Lepri...non vorrei essere io a dirtelo...ma quella R.L. sei tu. hai commentato questo post 365 giorni fa. è il mio post del 27 gennaio 2012.

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