8 marzo


Betty Rubble




La mattina ti svegli su un letto ricavato da ossa di dinosauro che tuo marito non ha comprato, probabilmente le ha trovate in qualche valle dove i mammut o gli stegosauri vanno a passare gli ultimi momenti della loro vita, ma tu non chiedi neanche, certe cose meglio non saperle, meglio pensare e raccontare di averle comprate.

Ti svegli e lo guardi mentre dorme, dalla testa ai piedi, che poi è talmente basso che non hai neanche bisogno di allontanarti per inquadrarlo per intero. La ruota della fortuna gira una sola volta per ognuno nella vita, e tu ancora aspetti quella fortuna, anche se ormai hai perso le speranze. Sei destinata ai ruoli secondari, pensi questo mentre ti lavi i denti con l’argilla utilizzando la coda di un uccello. Apri il tuo armadio scavato nella roccia, tredici vestitini, tutti uguali, di un blu che odi ma che sei costretta ad indossare: all’usato storico, anche se, visto il tempo in cui ti trovi, ti chiedi a cosa si riferisca l’aggettivo “storico”, i vestitini blu sono gli unici in offerta. Non ti puoi permettere altro con il lavoro che fa tuo marito.

Non lo sai nemmeno di cosa si occupa, forse è operaio alla cava, ma non t’interessa neanche. Il marito della tua migliore amica comanda addirittura un enorme dinosauro, è questo il suo lavoro, e probabilmente guadagna molto di più del tuo.

Non hai una macchina, per andare al cinema sei costretta a sederti nei posti dietro, tu e tuo marito, insieme ai bambini e agli animali domestici. Che tu non sopporti. Il film non lo segui neanche, ti chiedi se mai capiterà di sederti nei posti davanti, o addirittura se succederà mai di avere una macchina tutta tua. Intanto ti tocca camminare per arrivare al cinema, non hai nemmeno le scarpe, tuo marito ti dice che non le hanno ancora inventate e tu non sai se credere alle sue parole oppure pensare che si tratti di un’altra delle sue scuse per dirti che quest’anno non riceverai regali di Natale.

Vivi in uno squarcio spazio-temporale non identificato, un mondo tutto tuo. Invidi la tua migliore amica, suo marito, sua figlia. Quel mostro che ti distrugge casa invece non è neanche tuo figlio, forse non puoi averne, ma i test di gravidanza, così come tante altre cose, non li hanno ancora inventati! 

Federico Orlando



Julia Pastrana





C'era una volta una donna a cui un destino bizzarro e malevolo aveva riservato la stranezza d'essere barbuta. Non solo. Aveva peli sparsi in tutto il corpo, anche laddove alcuno, per quanto irsuto, era solito averli. Il suo nome era Julia. Era dolce e minuta e, cosa rarissima per l'epoca, sapeva leggere e scrivere. Aveva una discreta voce da mezzo soprano e conosceva a memoria le più famose romanze spagnole ed inglesi. Cose apprese per alleviare un poco alla solitudine a cui, il suo aspetto, pareva averla destinata. Un giorno, nel villaggio messicano in cui Julia abitava coi genitori, arrivò un uomo di mondo, Theodore Lent, e appena la vide capì subito l'enorme potenziale di Julia. In cosa consistesse questo potenziale lo ebbe a dire chiaramente egli stesso ai genitori della ragazza: "Se la lascerete venire con me diventerà ricca. Andremo di paese in paese e di città in città. Molta, moltissima gente pagherà per vedere Julia. Avrà abiti bellissimi e con me sarà felice". Ai poveri genitori della ragazza quelle parole parevano un miracolo. A chi mai avrebbero potuto dare in moglie la loro figliola? Chi l'avrebbe presa con sé? Mentre Theodore garantiva loro che sarebbe potuta diventare ricca! Nonostante simili promesse tuttavia Julia non voleva ascoltare né tanto meno seguire quell'uomo. Ogni volta che lo vedeva avvicinarsi a casa sua scappava nei campi. Si sedeva sotto qualche albero a distanza di sicurezza da tutti e si guardava i palmi delle mani che erano una delle pochissime zone del suo corpo prive di peli. Li guardava e spesso li bagnava di lacrime. Theodore non sapeva più come convincere Julia a seguirlo. I genitori sarebbero anche stati d’accordo, ma lei pareva lo temesse. Una sera la avvicinò di nascosto mentre Julia stava seduta in un prato, dietro la propria casa. Dapprima la ragazza si spaventò, ma l'uomo cercò di rassicurarla mentre con voce calda iniziò a chiederle di non aver paura. Era gentile con lei e Julia non era abituata a quella gentilezza nei suoi confronti. Tutti la evitavano e i bambini del villaggio la schernivano chiamandola "mono", scimmia. L'uomo le prese le mani, guardò anche lui il loro palmo glabro e le baciò. A Julia parve di vivere un sogno. Le si annebbiò la vista di lacrime che si bloccarono subito tra i peli delle guance. "Io voglio che tu venga con me perché ti amo". A quella frase, per quanto falsa e meschina, Julia non riuscì ad opporre alcuna resistenza. 
Il giorno dopo stava seduta sul carro di Theodore e guardava il cielo di paesi sconosciuti, uno dopo l'altro, meravigliandosi fossero così simili a quelli del suo villaggio! Theodore le comprò dei vestiti e la convinse, sempre con una dolcezza che mal celava la sua vera indole, a preparare un paio di canzoni ed un piccolo balletto sulle note di una musichetta da fiera suonata da un vecchio organo meccanico. Julia non voleva deluderlo e diede il meglio di sé. Le sue prime apparizioni in pubblico risalgono al dicembre 1854, quando venne esposta a New York presso il Palazzo gotico di Broadway, come "il meraviglioso ibrido" o "la donna con la barba", indicata come la più brutta del mondo. Un giornale la descrisse come "terribilmente orribile" ma dotata di una "voce armoniosa". Una mattina, successiva ad una replica del suo spettacolo, Julia si presentò a Theodore con quel giornale in mano e gli chiese se pensava anche lui quelle cose. L'uomo rise, ma appena vide negli occhi della giovane uno smarrimento che poteva anche indurla a rinunciare ad esibirsi, trovò parole molto lusinghiere arrivando a dire che solo lui la vedeva davvero per quella che era in realtà: una donna meravigliosa che era fiero di amare. Finito il suo sdolcinato show, Theodore baciò Julia sulle sue labbra sporgenti, alzando gli occhi al cielo ben attento a non incrociare quelli della donna. "Diamo alla gente quello che vuole mia amata. Facciamo più soldi possibili e andiamocene in Europa. Ti piacerebbe vedere Londra? O magari Parigi? Ancora qualche mese e ci sposeremo. Saremo felici vedrai".
A New York, uno dei membri di una società di ricerche mediche che esaminò Julia dichiarò trattarsi “dell'essere più straordinario del giorno d'oggi, un ibrido tra uomo e Orangutango”. Quella certificazione così altisonante diventò il nuovo annuncio per le esibizioni della donna. Tuttavia Julia impressionò molti con il suo fascino e la sua grazia, diventando in breve tempo una star, tanto da essere invitata a serate di gala militari. In una di queste occasioni, le fu concesso l'onore di un giro di valzer con molti dei soldati più coraggiosi e non, messi in fila per avere l'esclusiva di poter ballare con questo unico ma strano essere. Lei era raggiante. Si sentì per un momento desiderata e simile ad una principessa in mezzo a tanti uomini con la divisa di gran gala. In fondo, si diceva, sono una donna fortunata. In fondo sono felice. In fondo....In fondo.
Finalmente arrivò il gran giorno della partenza per l'Europa. Viaggio in prima classe. Julia passeggiava sul ponte della nave con i nuovi vestiti che Theodore le aveva comprato e si sentiva una signora. Gli altri passeggeri le lasciavano il passo. Che gentili pensava. In realtà Julia incuteva in molti di loro, oltre che curiosità, paura.
Nel 1859 mentre il nuovo tour dello spettacolo attraversava la Polonia, con l'intenzione di arrivare fino a Mosca, Julia si accorse di essere incinta. I medici temevano un parto difficile a causa della sue statura e dei fianchi stretti. Con l'avvicinarsi delle doglie aumentarono le preoccupazioni di tutti, tranne che di Theodore, il quale, anche in tale circostanza, sfruttò l'avvenimento, vendendo biglietti per far assistere il pubblico al parto!
Il 20 marzo 1860 Julia diede alla luce un bambino, anche lui coperto di peli, che visse solo trentacinque ore. Fu un parto difficile e, a causa anche delle complicanze di una inattesa peritonite, Julia si spense cinque giorni dopo il 25 Marzo all'età di 26 anni. Le sue ultime parole furono ancora una volta dettate da una illusione d'amore letta negli occhi umidi del marito: "Muoio felice, sapendo che mi hanno amato per il mio bene". Theodore era disperato. Per il debutto a Mosca aveva contratto dei debiti confidando su un sicuro incasso che vedeva ora spegnersi con la moglie. Alla fine monetizzò il dolore e la morte di Julia vendendo il suo corpo così come quello di suo figlio Theodore Jr., al professor Sokolov dell'Istituto di Anatomia dell'Università di Mosca, che con sconosciute tecniche di imbalsamazione, mummificò i corpi di Julia e di suo figlio. L'intero processo durò sei mesi ed i risultati, benché alquanto macabri, furono impressionanti. A differenza delle mummie dell'antico Egitto, i resti mummificati conservarono il loro colore, la consistenza e la forma, sembrando molto realistici. Il professor Sokolov pose le mummie in esposizione presso il museo anatomico dell'Università stessa dove attirò grandi folle.
Quando Theodore si rese conto del successo e dei grandi profitti che derivavano dall'esposizione di sua moglie e del figlio, avviò un'azione legale per recuperarli. Presentò il suo certificato di matrimonio tramite il console americano ed il professore fu costretto a restituirli.
Cambiò d'abito alla mummia della moglie e fece cucire su misura un piccolo abitino da marinaio per il figlio. Riuscì a farlo stare in piedi su un altrettanto piccolo trespolo che imitava nei dettagli i fregi della teca in cui ripose infine la moglie. Provò allora a mettere le mummie in mostra, ma le autorità russe vietarono quel genere di spettacolo in quanto le esposizioni erano tenute fuori da un istituto scientifico. Così, nel febbraio del 1862 Theodore ritornò in Inghilterra dove per altri 20 anni riuscì ad esibire il corpo di Julia e del suo piccolo, al prezzo di uno scellino. Quando la popolarità delle mostre iniziò a svanire, Theodore affittò le mummie ad un museo inglese per dei tour scientifici itineranti. Julia riuscì così a vedere Parigi nel 1864.
Alla fine del 1880 Theodore si ritirò a San Pietroburgo, dove aprì un piccolo museo delle cere. Era ormai diventato abbastanza ricco. Tutta quella sua ricchezza non significò nulla tuttavia, perché non riuscì a godersela a lungo. Raccontano che di notte lo si poteva spesso vedere, ubriaco, barcollare per le strade della città. Nel suo girovagare lo sentivano chiamare qualcuno: "Mono"...Urlava. "Mono". Un giorno lo videro parlare ad un albero. Indossava un vecchio cappello della marina russa e strappando dei soldi li buttava nel fiume Neva. Alla fine scomparve oltre le mura di un sanatorio. Un infermiere, dietro giusto compenso, raccontò ad un giornalista impiccione di come lo trovarono una mattina, immerso nel proprio vomito, dopo una notte insonne passata a cercare di arrampicarsi ad un muro della stanza.


Gianluca Meis






Donna Bastiana Giunta in Sedara



“buona per andare a letto e basta”
(Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa)



Malalingua don Ciccio che al principe di Salina andò a riferire cose che non sono, cose dettate dall’invidia e dalla rabbia di cuore.
Ignorante donna Bastiana lo è. Ma al giorno d’oggi pure che vai a scuola non ti insegnano niente. E poi suo padre, Peppe Giunta detto Mmerda – che è quanto dire – non fece niente per farla acculturare un po’, trovarle un’istitutrice, neanche un romanzo le comprò mai, ma che dico, un abbecedario. Sapeva dire solo “mia figlia è troppo bella, più bella di lei non ce n’è e tanto basta”. Il male da lui partiva perché Bastiana da piccola era una ragazzina vivace e furba, poi quando si formò che i maschi le mettevano gli occhi addosso, suo padre la chiuse. Lei allora fece la fuitina con don Calogero SEdara e finì di consumarsi: passò da una gabbia alla cella di carcere.
Don Calogero ci fece una figlia – Angelica assomiglia tutta a lei! – e poi la mise sotto vetro (la fa andare solo alla Santa Messa delle cinque dell’alba quando non la vede nessuno, scortata).
Voce di popolo, ma che dico, voce di cameriera di casa Sedara, donna Bastiana al pranzo del principe ci voleva andare che si era lavata i capelli con l’aceto per averli più lucidi della pelatura di una puledra – che poi farle prendere un poco d’aria a quella carnagione sempre chiusa le avrebbe fatto bene.
Lui fu porco preciso, le disse che ci sono cose di mezzo che si possono rompere – un matrimonio con il nipote Tancredi, che fa scherziamo? -, che se lei avesse aperto bocca… te lo accolli di stare muta che poi mi fai fare una figura degna del nome di tuo padre?
Lei – dice la cameriera – è diventata di mille colori, ma che dico, diventò come la tempesta d’inverno, i capelli nt’all’aria, gli occhi di fuori, i nervi che le uscivano dal collo; tratteneva le mani per non tirargli le porcellane di Capodimonte , quelle che hanno nel salotto buono. Con una voce che pareva venire dall’inferno gli disse: “schifiu e piruocchio, jecca sangu ru cuori”. Poi ha aggiunto “riferisci che sono indisposta”. Lo disse così, che la cameriera impallidì, mai l’aveva sentita parlare in italiano, e con questi paroloni.

Giorgio D'Amato



Fosca



Alla nascita non era una bella bambina, ma per quanto tutti elogino la bellezza dei neonati nonostante  siano grinzosi e screpolati, per lei niente, solo apprezzamenti sulla lunghezza dei capelli.
Si sa, nascono brutti ma poi, crescendo, si aggraziano.
E invece la piccola Fosca diventò grigio alabastro e gli occhietti, una volta aperti, erano quelli di un uccellino rapace – si dice che la madre non riuscisse a guardarla quando la attaccava al seno.
Brutta nacque e brutta crebbe nell’invidia delle amiche più belle che si scambiavano confidenze sui loro amori; Fosca ascoltava e più i racconti sfioravano la sensualità, tanto lei si agitava che una volta addirittura scappò gridando. Da allora ebbe continui collassi nervosi.
Si chiuse nello studiolo del padre e si nutrì delle pene d’amore di tanti poeti; uscì da lì solo dopo la morte dei genitori e la vendita della casa; suo cugino, colonnello, ne ebbe pietà e la portò con sé al dipartimento militare lontano dal mondo, tra rovi, gelsi intisichiti che raspano l’aria: lì Fosca sembrava in armonia con la natura. Anche la sterilità della vita di caserma si addiceva a lei che rallentò le sue crisi.
Poi arrivò Giorgio, troppo bello e gentile per non turbarla.
Fosca decise che doveva essere suo: tirò fuori la poesia e la pietà.
Lui conobbe la commozione, lei esperì il calore di un torace villoso, scoprì cosa significa sentirsi posseduta da un uomo ma  il suo corpo spossato ahimè cedette.

Di lei rimangono tanti libri di poesie, resi illeggibili dalle abrasioni a tutte le parole d’amore.

Giorgio D'Amato








Virginia Oldoini contessa di Castiglione




Mio caro Jean,
dolce ultimo amico, ti saranno giunte notizie allarmanti sul mio stato di salute. Purtroppo sono tutte vere. Fatico a reggere anche la penna con la quale ti sto scrivendo. Tuttavia non credere ad ogni dettaglio con i quali vogliono farmi passare per una vecchia pazza. Vecchia sì, pazza mi è stato risparmiato. Non c'è nessun velo sugli specchi di casa mia. Guardo il volto sconosciuto che vi scorgo riflesso e con lui ho lunghe conversazioni. Le uniche possibili. I lavoranti che ho a servizio son tutti a stipendio dei francesi. Vedo le guardie appostate al di là del giardino. Si credono furbi a leggere per giorni lo stesso giornale sperando di passare inosservati. La cuoca so per certo ha una tresca con uno di loro; quello che ha il compito di verificare ogni mattina se ancora respiro. Non appena avrò raggiunto mio figlio Giorgio in paradiso - non sorridere, sono certa che andrò in paradiso: Dio non può essere così meschino come lo dipingono a Roma! - si avventeranno in casa mia come iene e faranno sparire ogni cosa. C'è un mucchio di legna in cucina, troppa per pensare sia utile solo a preparare quel poco che ormai mangio. Sarà il fuoco nel camino a far sparire ogni cosa. Ogni traccia della mia vita e della mia missione. Non è solo interesse dei francesi ma anche dei piemontosi, sbarcati con tutti gli onori a casa del Papa. 
Voglio essere sepolta a La Spezia, che considero mia città natale, senza funzione religiosa e senza fiori. Non voglio che i giornali siano informati né tanto meno le autorità, civili e religiose. Ho chiesto di indossare la camicia da notte di Compiegne, quella che piacque tanto a Napoleone! Al collo la collana di perle e ai polsi i due braccialetti dono di nozze del Conte, mio marito. Il capo fallo poggiare sul cuscino di velluto che Giorgio ha ricamato quando era bambino. Ai piedi, nella bara, i due cagnolini che ho fatto imbalsamare, ultimi compagni di questa mia desolata vecchiaia. Prendilo come ultimo desiderio o capriccio di chi hai tanto amato.
Quando si vogliono elencare i padri illustri del nostro Paese la lista è sempre piuttosto lunga: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele III  eccetera. Nessuno scriverà mai che senza di me le cose sarebbero andate diversamente. Nessuno parlerà di me come la madre dell'Italia unita. E tu sai bene quanto le mie gambe fossero un luogo delizioso ove transitare. Concedimi questo vezzo e ora sì puoi sorridere come nei miei ricordi fai sempre. Questo pensiero è carico più di nostalgia che di malizia.
Ti abbraccio
la tua "Nicchia"

Gianluca Meis


Roxanne



L’ultima goccia di gin toccò il fondo del bicchiere, lei non beveva altro. Teneva in mano il foglio bianco, ne piegò gli angoli, lo guardò per poi ritrovarsi a disegnare un albero o un uccello. Quel foglio insieme agli altri: accartocciato dentro il cestino.
Trovò le parole giuste per iniziare la lettera quando da una piccola radiolina, che lei amava ascoltare quando era triste, misero una sua canzone, quella che lui le cantava sempre quando stavano insieme. Le aveva fatto tante promesse ma non era riuscito a mantenerne nemmeno una, l’aveva tolta dalla strada, questo sì, adesso però aveva deciso di rispedircela, e con il peggiore dei compagni: l’illusione.
Sei la mia rosa del deserto, le aveva detto, e lei c’era caduta. 
La vita di strada non è per tutti, si deve essere forti e non credere ai sentimenti che vengono fuori da una bocca. A lei, invece, le sue parole erano sembrate vere, tutte le piccole cose che fai sono magia per me. Ed eccola pronta per il secondo appuntamento.
Mai fidarsi dei cantanti, le avevano detto una volta, mentono più degli attori, ma lei non aveva mai fatto caso a queste dicerie, non credeva ai luoghi comuni.
Lo incontrò una volta al parco, lui non era solo. Fece finta di non conoscerla, poi le mandò un sms – non starmi così vicina – lei non rispose e tornò a casa piangendo.
Se ami qualcuno lascialo libero, questo è quello che lui le diceva continuamente, ma lei era troppo ingenua. 
Prima di chiudere la lettera aggiunse un’ultima frase - continua a mandare i tuoi SOS alla terra – poi firmò con il nome che utilizzava per strada, dove lui l'aveva conosciuta: Roxanne.



Federico Orlando





Tina Modotti




Si chiama contratto unico d’ingresso, nel giro di tre anni si può essere licenziati. Uscita dal decreto sulle liberalizzazioni, la cancellazione dell’articolo 18 rientra attraverso la proposta Fornero che generalizza il modello Pomigliano: lavoratori ricattabili e meno diritti.
Assunta Adelaide Luigia Modotti nasce a Udine il 17 agosto 1896; il padre, Giuseppe Modotti, mantiene la numerosa famiglia con il lavoro di muratore; di idee socialiste, partecipa a manifestazioni e riunioni.
Dopo un breve periodo vissuto in Austria ritorna a Udine. L’assillo è sempre lo stesso, procurarsi da mangiare. Tina abbandona la scuola dopo gli esami di terza elementare. A dodici anni riesce a farsi assumere nelle filiere Raiser. Giuseppe Modotti decide di avventurarsi negli Stati Uniti; arriva a San Francisco e intraprende ogni sorta di attività per racimolare il denaro necessario a pagare il viaggio ai familiari. Tina nel 1913 si imbarca in un piroscafo stipato di emigranti lasciandosi alle spalle un’adolescenza da dimenticare; secondo un’informativa Tina si sarebbe prostituita per mantenere la famiglia. Tina a volte tornava dalla fabbrica con un pacchetto delle meraviglie, salame formaggio e pane. Una festa con l’amaro in bocca. Proprio dalla fabbrica si diffusero le voci che gli costarono la schedatura per esercizio della prostituzione.


Tina giunge a San Francisco, trova lavoro in una fabbrica di camicie; attorno a lei crescono grandi movimenti sindacali; si organizza la resistenza alle bande armate del padronato e si promuovono scioperi. Tina lascia la fabbrica e impiega il suo tempo seguendo dibattiti, riunioni e mostre. Conosce il pittore e poeta Robo che in seguito sposerà.
Lo studio di Robo è il luogo di riunione e ritrovo di artisti e scrittori radicali, c’è un perenne viavai in cerca di qualcosa che non sanno definire ma di cui sentono la mancanza. Nel giardino di Robo si accendono infervorate discussioni sul socialismo, sulla rivoluzione e sull’indipendenza individuale come requisiti fondamentali per l’espressione artistica e politica.
Cambiare il mondo per loro non significa solo rifiutare un potere o un governo ma trasformare sé stessi e mettere in pratica ciò in cui credono. Tina non si accontenta più di dedicare le sue giornate alle stoffe e alla macchina da cucire. Sente la necessità di affermarsi individualmente. Tra i frequentatori dello studio di Robo c’è Edward Weston che si innamora perdutamente di Tina.
Robo vive nella sua solitudine ed è a conoscenza del legame tra Tina e Weston. Le comunica la decisione di partire per il Messico.
In Messico Robo si trasforma, scrive a Weston lettere accese di interesse per una terra che definisce “degli estremi”; invita sia Tina che Weston a raggiungerlo, rassicura l’amico sulla loro amicizia.
Il 9 febbraio 1922 un improvviso attacco di febbre lo uccide; in quel momento Tina sta attraversando la frontiera, è diretta a Città del Messico. In aeroporto  si congiunge con i suoi amici Diego Rivera, Frida Kahlo, John Dos Passos: destinazione Pechino, dove li attende una mobilitazione contro lo sfruttamento e la ricattabilità dei lavoratori senza nome.

Krisstina Ina




Wonder Woman



Dio benedica la televisione satellitare! Soprattutto perché ultimamente è in gran spolvero di vecchi telefilm anni settanta e ottanta con i quali riempie ore e ore di palinsesto!
Ed è proprio su una televisione satellitare che ho rivisto, con non poca emozione, una eroina che ho tanto amato, la grande e unica Wonder Woman! Con lei in un attimo sono riaffiorati nella mia mente, mai risanata, le domande che mi hanno tormentato per anni: ma quando Linda Carter si trasformava in Wonder Woman, che fine facevano i suoi vestiti? Andava sempre in giro con gli hot-pants sotto il tailleur, e con il cerchietto double face che si trasformava in diadema? O, nel giro di due secondi riusciva davvero a cambiarsi non solo di abito, ma anche a modificare il tono del fondo tinta, a coordinare gli accessori e a cotonare i capelli? Ma soprattutto, una volta trasformatasi, come faceva la gente a non riconoscerla? Una volta ho messo una parrucca, una camicetta a velo, un gonnellone a pieghe e un burka eppure mi hanno riconosciuta lo stesso!
Alba Parietti cambia zigomi e nuance dei capelli ogni mezzora ma la riconoscono lo stesso!
Quindi, a rigor di logica, quando la fruttivendola vede Linda Carter vestita da Wonder Woman che le passa accanto al bancone non dovrebbe esclamare: “Oh c’è Wonder Woman!”, ma piuttosto:“Oh c’è di nuovo Linda Carter sotto psicofarmaci!”
Ho fatto il conto che per trasformarmi in Wonder Woman io ci metterei: dieci minuti per scegliere il posto dove lasciare la borsetta e in cui riporre i vestiti, senza stare col timore di dover ogni volta ricomprare tutto; due minuti per assumere un Vertisec con mezzo bicchiere di acqua: sapete, girare a quella velocità mi farebbe venire le vertigini per cui meglio prevenire che stramazzare a terra svenuta dopo due passi; trenta secondi per girare su me stessa in mutande: non serve a niente ma fa tanta scena! E ancora: un quarto d’ora per infilarmi gli hot-pants di due taglie in meno e il top con scollo all’americana, trattenendo il respiro fin quasi allo svenimento; quaranta minuti per infilarmi i tacchi; un’ora e un quarto per farmi cotonare la parrucca come Dio comanda; due minuti per assumere un altro Vertisec: non sembra ma sti’ tacchi portano ad altezze notevoli! 
Ed infine mezz’ora per uscire incolume dalla Rinascente. Il diadema e i bracciali metallici fanno sempre scattare l’allarme, così perdo un sacco di tempo per spiegare all’addetto alla sicurezza che non sono un’ospite dell’ospedale psichiatrico in libera uscita! ma un'eroina!
Comunque per trasformarmi in Wonder Woman impiegherei circa tre ore, per cui il pericoloso criminale nel frattempo farebbe in tempo ad andare alla Coop a farsi la spesa e ritirare la pirofila in vetro da forno vinta con i punti fedeltà, nonché noleggiare un auto e andare fino a Cannes per un aperitivo sulla Croisette!

Perché a Linda Carter invece bastano due secondi?
Come sempre la verità la sa solo la Madonna: e se non ce la dice, è perché "qualcuno" la ricatta!

Ermelinda Frangisponde




Lara





Il gorgoglio della caffettiera quasi rimbomba nella cucina spoglia e Lara socchiude la porta della cameretta per non svegliare le sue tre figlie. Si prepara per andare al lavoro:  fuori è buio, ci saranno meno due meno tre e nebbia e neve avviluppano tutto, - sono già le cinque - pensa.  Si infila il piumino che lui ha comprato nei saldi all’oviesse – che poi non dici che io a te non ti penso – e passa ancora un momento a dare un bacio alle sue tre figlie. La maggiore è adolescente,  la piccola ha quattro anni.  Me la vedo, chinarsi su di loro ed infilarsi in quel morbido anfratto tra il collo e la spalla inspirando a fondo per sentire il loro buon odore, quasi a volerselo portare dentro per l’intera giornata. Le labbra indulgono un momento in più, un piccolo istante di abbandono su quelle guance cicciotte e arrossate, una carezza tra i capelli arruffati e sudati , una sistematina  alle coperte.
Scende ad aspettare la corriera Lara, cercando di affondare all’interno del collo di pelliccia ecologica ed ispida ed osservando le nuvole di fiato uscire dalla sua bocca – guidare la macchina è pericoloso – era il mantra che si era sentita ripetere ormai da anni e infine aveva finito per convincersi.  Così come si era convinta a non vedere più  le sue vecchie compagne di scuola, la Sabrina e la Michela… perché lui non vuole,  perché lui scatta per un nonnulla  - Ma ti sei scemunita ? Da sole in giro chissà che vi può succedere… che non lo sai che ieri i colleghi della pantera del turno serale hanno trovato una romena  che è stata violentata e derubata  fuori dalla birreria di Montebruno… che è arrivata in questura che era in uno stato pietoso, quella fine vuoi fare ? -   Per andare a trovare sua madre,  vedova da qualche anno, nel paesino  pochi chilometri distante  invece aveva inventato una scusa – perché tua madre pensa solo ai cavoli suoi e di noi se ne frega e guai se ti becco ancora che vai a trovarla, che quella è buona solo a metterti  idee strane in testa –  aveva sentenziato lui qualche settimana prima.
Le colleghe ridono sguaiate mentre si cambiano nello spogliatoio del seminterrato tra gli armadietti di ferro grigio; si fanno le confidenze,  sanno già di fumo  di prima mattina ma sono truccatissime e curate: i capelli virano dal rosso tiziano al biondo platino, tagli asimmetrici, ciocche bicolore, le unghie decorate col gel brillantinato, gli stivali coi tacchi alti.
Controlla il suo carretto Lara, un sacco per l’immondizia con le ruote, il secchio, il mocio e gli spray appesi in fila che sbatacchiano uno contro l’altro. Sembra che danzi quando spinge quello scopone lungo cattura-polvere sul marmo del corridoio del tribunale.  Ora tocca ai bagni… entrando prova a non guardarsi nello specchio ma non ce la fa…una sbirciatina solo per controllare che il fondotinta non sia colato via dal livido che ha sotto lo zigomo. 
Era intervenuta la sera prima per difendere  Chiara,  la mezzana, che aveva preso cinque di scienze. Si era messa in mezzo alla furia di lui e alle grida di lei, niente e nessuno avrebbe potuto fermarla. Aveva cercato di morderlo,  ma lui la teneva per i capelli per poterle assestare quel ceffone in piena faccia che l'aveva quasi stordita ma non sentiva dolore… la rabbia intorpidiva e ovattava ogni altra sensazione,  non sentiva più nulla del suo corpo:  anzi per un momento le sembrava di assistere alla scena dall’esterno… di non essere veramente lei.  Odia suo marito con tutta se stessa, ma vive nella paura, e come lei le sue figlie, che saltano sulla sedia ogni volta che sentono arrivare l’ascensore al piano ed infilare la chiave nella toppa con quell’irruenza tipica sua.
I vicini sanno, i parenti sanno,  ma la pistola d’ordinanza che lui appende in camera ogni volta che rincasa sigilla le bocche di tutti, tranne quella di Annalisa… la figlia maggiore,  che gliel’ha gridato in faccia l’altra sera tremando tutta:  - se tocchi ancora una volta mia madre o mia sorella ti ammazzo. Ti odio vorrei tanto che tu morissi - gli aveva gridato tra le lacrime.
Così vive Lara a 35 anni:  in apnea… nell’attesa che le sue tre figlie crescano e diventino indipendenti.  Solo quando lui è di pattuglia riesce a non pensare un per un po’,  postando foto di passerotti  e frasi  romantiche scritte da altri in un libro di facce felici, sotto falso nome.  La mia mimosa è per lei.
Barbara Goria



Belinda




Vi voglio parlare di una donna che in me ha svelato molto. E’ il 1987, il terzo anno delle medie è appena iniziato, gli ormoni delle mie compagne entrano in centrifuga ogni volta che Nick Kamen, cantando ‘Each time you break my heart’, si toglie i jeans e li caccia in lavatrice, altre più patriotticamente ricoprono i muri delle camere da letto con i poster di Eros Ramazzotti innamorate dei suoi riccioletti stitici e delle sue espressioni ‘der puggile de borgata’, altre ancora si illudono che prima o poi faranno colpo su George Michael (le più illuse di tutte…). Quando non mi parlano dei loro cantanti preferiti, mi snocciolano tutte le pene amorose che provano per i loro amichetti brufolosi e con la voce da mezzo soprano. Come se non bastasse già tutto questo delirio attorno a me, in quella valle di lacrime e di ormoni centrifugati, devo anche prepararmi per gli esami di terza media. Meno male che c’è lei e la sua musica che mi salvano! Come ‘lei chi?’ 
Belinda Carlisle! Sì,lei, già vi sento canticchiare ‘Heaven is a place on earth’. È lei è lei, la California girl che ci ha fatto impazzire, ballare, innamorare, e io ne parlo anche perché c’è questa idea generalizzata per la quale le donne cantanti (ma non solo) se hanno successo è perché sono ‘belle’, o ‘sexy’, sono bambolette carine che cantano canzonette. Tra le già poche donne molte erano messe là da rampanti manager-burattinai che facevano l’occhiolino ai gusti maschili e costruivano le loro immagini come prodotti studiati a tavolino, almeno lei si era fatta da sola, munita di testa pensante,si era scelta lei quella carriera perché la amava. 
Appena 20enne è punk nel gruppo The Germs (punk! anch’io volevo essere punk! Già sulla buona strada per diventare poi icona lesbica), le dicono che ci sono due posti vacanti nel gruppo: batterista e cantante. Non sa fare nessuna delle due cose (il che la rende simpatica…) e quindi decide di fare la cantante, perché le pare che suonare la batteria sia più difficile (come ti spiazza sta donna…).  Canticchia qualcosa col cantante, ma la nostra è una ribelle nata e quindi nel 1979 si stacca e fonda con altre 4 ragazze il gruppo rock Go-go’s, ovvero il primo gruppo nella storia della musica ad essere composto da sole donne che compongono interamente i propri testi e musica e suonano i loro strumenti (nel 2011 hanno intitolato una ‘stella’ sulla Hollywood Hall of Fame per questo). Un gruppo rock di donne rock non può che mietere vittime tra le ragazze adoranti di tutto il mondo. Groupies affollano i camerini delle ragazze ad ogni loro concerto (mamma, perché non mi hai fatta nascere prima che mi mettevo in coda anch’io con le groupies????), abitudine ricordata varie volte nelle loro interviste. Noi che sognavamo di indossare le camicie della batterista, Gina Shock, (nomen omen visto il suo look) e immaginavamo di essere lei per far colpo su Belinda. Noi giovani e innamorate con l’animo così cieco d’amore, il cuore così puro (e anche pirla) da non pensare minimamente che Bel non ci avrebbe mai cagate con quelle camicie da benzinaio ubriaco dell’Oklahoma!
Nel frattempo nel 1984, tanto per soffiare sul fuoco lesbico e darci l’ultima definitiva fiammata, si mettono pure a girare il video di ‘Turn to you’ (dall’album Talk show) dove Bel è meravigliosamente splendida anche in versione uomo (aaaah, sarebbe stata l’unico uomo della mia vita!), e vederla fare la corte a Charlotte e a Jane…oh, santa youtube, grazie di esistere! Ah, dimenticavo, anche Gina è travestita in quel video: sì, da donna! Insomma Bel continuava imperterrita la sua carriera di icona gay e lesbica! Quanti illuminati sulla via di Belinda che hanno capito la loro natura grazie a lei, tra cui anche il suo unico figlio, James Duke, perché, come direbbe il mio caro amico Mauro: ‘con cotanta madre, ti credo che anche il figlio veniva su gay!’
E infatti dopo 20 anni passati a suonare la chitarra con lei (in senso musicale, non in senso erotico…) la chitarrista delle Go Go’, Jane Wiedlin, diventa Drag Queen lesbica (dico…Drag Queen lesbica, mica pizza e fichi!)  
Nel 1985 si stacca dalle Go-go’s, ma non ho mai capito se fosse perché voleva la carriera solista (come sostiene lei) o perché non voleva più condividere le groupies con le altre…(ah, beate groupies! Non fatemi pensare!). Si stacca e sforna album a raffica, tra cui il secondo nel 1987 ‘Heaven on earth’. La sento in radio e vengo colpita dalla sua voce magnetica, roca, dolce, rauca, ribelle e grintosa. Nel 1988 viene al Festival di Sanremo. La devo vedere. Devo vedere come si muove, chi è, cosa fa sul palco, se è antipatica o no, se vuole una groupie italiana, se le posso piacere quando mi incontrerà con la camicia in stile Gina Shock ecc…Il problema è che sono dai miei nonni che mi mandano a letto presto e chissà quando canterà lei! Posso però contare sul fatto che i miei nonni vanno a letto presto, appena finito il tg. Sì, però, una dormigliona come me come farà a star su fino all’una di notte e svegliarsi alle 7 la mattina dopo per andare a scuola? Ce la posso fare, devo solo far finta di andare a letto per rassicurare i miei nonni, tenere d’occhio l’orologio, ma la sfida più difficile, la prova d’amore più grande che Belinda mi può chiedere è di non addormentarmi come di solito faccio appena metto la testa sul cuscino. ‘Non devo addormentarmi, non devo addormentarmi’…oddio se vado avanti con questa filastrocca mi addormento fra 2 minuti. Sicuro. Canticchio tutte le sue canzoni seduta sul letto, fa freddo, ma non posso proprio permettermi di appoggiare la testa sul cuscino: ‘Or now or never’ , ora o mai più, canto anche questa, anche se non è sua, ma di Elvis. A parte me che canto, tendo un orecchio e sento che ‘tutto il resto è silenzio’. Via libera! Scappo fuori dalla camera e accendo la tv tenendo il volume spento. Appena la vedrò, alzerò al minimo, e, come Fantozzi quando guarda scene di sesso in tv, mi appiccicherò al televisore in un tripudio di  totale eccitazione sensoriale. Alle 23 la presentano, esce uno scricciolo adorabile dai lunghi capelli rossi, vestita non da strafiga snob (e questo me la fa amare subito!) ma in modo molto stravagante, con un vestito viola-verde (un ricordo delle camicie shoccanti di Gina) ed è  praticamente bellissima! Zot! Oddio, -penso- Cupido mi ha lanciato la freccia! Macchè, sto cadendo e mi sto tirando addosso il televisore dei nonni. ‘Giace qui morta d’amore non ancora 14enne…non fiori ma album di Belinda.’  Ah, mi pare che la canzone duri pochissimo e tantissimo, lei è perfetta, bellissima, allegra, lancia coriandoli e stelle filanti, ma io la adorooooo. Sì, Heaven is a place on earth. La adoro? Cupido? Morta d’amore? Il paradiso? Grazie, Belinda, quel giorno anche a me hai fatto capire di essere lesbica e da allora ne sono felice. 
Ma come in tutte le favole, ecco spuntare all’improvviso la strega cattiva. La maledetta prof di italiano, maledetta zitella-penso io-che non sa cosa sia l’amore, né l’ha mai saputo, la mattina dopo appena entra in classe alla prima ora subito nota le mie occhiaie (occhiaie d’amore, però!), la faccia distrutta da una notte insonne, gli occhi assenti che rivedono lei muoversi sul palco, i suoi capelli al vento dell’Ariston (al vento dell’Ariston???? L’amore è decisamente cieco e molto pirla), l’abbinamento di colori che solo io, lei e Gina possiamo fare, le mie orecchie assenti in classe che stanno riascoltando in loop lei che canta nel vento dell’Ariston (…), il naso che sente tutti i profumi dei fiori dell’Ariston (portati dal vento…) mischiati al profumo suo, tutti i miei sensi sono là e tutto il mio schifo riappare in me appena la prof urla: ‘Piccoli! Cosa hai fatto? Ti sei ubriacata? O peggio ti sei drogata? Per punizione vieni fuori a parlarci di Lucia Mondella’. Lucia Mondellaaaa??? No dico, ma vi rendete conto passare in un nano secondo dall’affascinante e sensuale donna punk-rock-pop col suo bel nasino all’insù a quella lagna legnosa bacia-banchi che me la immagino con la cuffietta bianca sui capelli stopposi? Quella che quando è salita sulla barca ha fatto tutto quel pistolotto dell’addio ai monti, alle sorgenti…ma vi pare che quando Belinda ha lasciato le Go-Go’s ci abbia svangato i maroni con l’addio alle colline di Hollywood, alle onde di Malibu, alle palme dei Boulevard? No,Lucia Mondella a me, proprio no! Quella pia donna sfigata lagnosa bruttina che passa la vita a piagnucolare e a far fioretti???  E poi il voto di castità no! Tutto ma non il voto di castità! Non ora che ho capito che voglio una carriera da groupie privata di Belinda Carlisle! Non ora che ho capito cosa voglio dalla vita! Non ora che posso dire ‘Sposerò Belinda’ e non ‘Sposerò Simon Le Bon’ come sognavano le mie compagne. Lucia Mondella a me no! Mi rifiuto! Non ho mica tutto questo tempo da perdere, io! Cara prof, s’informi! Ho altro a cui pensare: devo organizzare il viaggio, l’incontro, comprare le camicie verde bandiera-giallo-viola a quadri made in Gina Shock da indossare al nostro fatidico incontro in cui lei crollerà ai miei piedi vedendomi (la abbaglierò coi colori, questo è il mio astuto piano), devo migliorare l’inglese per farmi capire bene quando mi dichiarerò a lei! Questo matrimonio s’ha da fare! Alla faccia di Lucia Mondella, io sposerò Belinda Carlisle! Tié!
Belinda, Belinda, da quel momento non ho smesso di ascoltarla, di vederla, di leggere interviste e libri su di lei, eccellente cantante e grande donna con le sue battaglie a favore dei diritti di gay,lesbiche, trans e contro la violenza sugli animali. Ora è una splendida 54enne che continua ogni mese a girare il mondo facendo concerti come solista o con le Go-Go’s e…ovviamente a breve si fermerà per il nostro matrimonio. Abito da cerimonia: rigorosamente capi sgargianti con abbinamenti anni ’80.

Serena Piccoli








Mariangela Fantozzi







Mi chiamo Mariangela e di cognome faccio Fantozzi. Mamma Pina e papa’ Ugo mi avevano  tanto voluta, ma cambiarono idea quando venni alla luce ricoperta di peli e con 2 belle rosee orecchione.
 Con il tempo scoprii  di essere stata concepita in un momento di black out al circo Orfei   durante il numero degli scimpanze’. Papa’ Ugo era stato omaggiato di 2 biglietti dalla portinaia a cui era venuto un attacco di mal di pancia dopo aver mangiato un intero pacchetto di sunsweet, e c’aveva portato la mamma per il loro primo anniversario di nozze.
Ero una bambina capricciosa, mi addormentavo solo ciucciando  una piccola  banana  in plastica e giocavo appesa ai lampadari di casa facendo tintinnare le gocce in cristallo . Papa’ usava con me un diminutivo molto vezzoso:Piccola Cita.
All’asilo  ebbi la prima lezione di quanto i piccoli esseri umani possano essere cattivi. I miei compagni non volevano giocare con me , dicevano che ero brutta e mi chiedevano sempre dove avessi lasciato Tarzan e Jane,nonostante io con molta calma continuassi a ripetere  che i miei genitori si chiamavano Pina e Ugo.
Mamma Pina piangeva in silenzio quando mi riportava a casa ma io ero ancora troppo scimmietta per capire che ero diversa dagli altri bambini e quando le chiedevo cosa avesse, Lei rispondeva sempre che le era entrato un moscerino nell’occhio. Sciami e sciami di moscerini le entrarono negli occhi per cosi’ tanti tanti anni durante la mia infanzia che il primo regalo che le feci  un Natale fu un cappellino che per veletta aveva una zanzariera.
Papa’ Ugo usciva la mattina presto prendendo il bus al volo sulla tangenziale,  e quando tornava la sera mi portava sempre un gelato : la banita per la sua bella “babbuina”.( Non so per quale motivo confondeva la parola bambina)
Non avevo avuto un’infanzia facile ma ero una bambina felice nonostante non fossi bella un po’ pelosa e con 2 orecchie grandi cosi’. “Ma in fondo a cosa serve essere belli fuori quando si è meravigliosi dentro,” era solita ripetere  la mamma per consolarsi.



Quando compii 13 anni mamma Pina lesse su Grand Hotel che cercavano bambine per la pubblicita’ di uno shampoo e mi porto’ alla selezione.Venni immediatamente selezionata. Scoprii solo piu’ tardi che era uno shampoo specifico per animali e cosi’ anziche’ farmi fare  la  testimonial mi fecero fare uno  shampoo dalla bella bambina bionda che avevano scelto insieme a me.Mamma minimizzava tutto, diceva che ero comunque bellissima ma qualcosa cominciava a non tornarmi.: se ero cosi’ bella perche’ per strada tutti cambiavano marciapiede quando mi incrociavano o guardavano a terra con gli occhi bassi? Ma tutti i miei dubbi sparirono il giorno in cui  in coda al Cinema Splendor in attesa di entrare a vedere una cagata pazzesca, La Corazzata Potemkin , mi accorsi che un uomo  mi stava guardando con insistenza dalla porta dei bagni. Era Luciano Salce, un famoso regista Italiano che si avvicino’ e mi chiese se ero interessata a fare un casting per il primo episodio di un Film, avrei dovuto interpretare la figlia di un Ragioniere. Accettai la proposta e da quel giorno gli sguardi a terra  delle persone che incrociavo si trasformarono in sorrisi e richieste di autografi.Mamma Pina ora non pangeva piu’ è  papa’ Ugo felice continuava a ripetere orgoglioso : “Ma quanto è brava la mia piccola babbuina”?


Anna Wood



Sonata Kreutzer




Era nervosa Sof'ja. Nervose le dita che stringeva in quella mano destra, a scavare tra i solchi incalliti. Tutto quel tempo a scrivere, trascrivere, disumana passione che l'aveva ammazzata. Alla morte l'aveva portata, non sorrideva più. Guardava dalla finestra e non sorrideva da tempo. Solo le sopracciglia aggrottava e silente aspettava ancora che tornasse a casa quel disgraziato. L'aveva consumata, contessina a modo che era, tutti gli studi aveva fatto, un talento era. Tutti glielo dicevano. Libera era e tanto sveglia quanto quella stupida di sua madre. E c'era cascata pure lei, che tra quei modi garbati, che anche se gli mancavano i denti, parlava bene. Come parlava bene. Maledetta cretina quel maledetto giorno in cui avrebbe potuto serbarlo in seno quel racconto, tra le pieghe profumate dell'abito non l'avrebbe imbarazzata spedendola al manicomio tra gli elogi di lui. Ma che voleva? Aveva bruciato tutto Sof'ja. Al diavolo le sue manie passate che non l'avrebbero portata a nulla di buono. Non affermava né negava pentimento neanche quando quel porco le faceva leggere i suoi diari. Avrebbe dovuto capirlo, lo aveva capito già in quei pochi giorni di fidanzamento: una settimana angustiante, la madre, il corredo e la sua fretta. Perché quella fretta aveva lui? Quella smania di tormentarla. Non se lo chiedeva più e ripensava a quel terribile giorno della felicità degli altri. L'angoscia fino a quella casa, tanto bella da soffocare. Ringhiava ancora di rabbia a leggere di soppiatto i diari di quel maledetto porco. Pure un figlio da quella popolana, quell'incubo. A pezzi lo faceva, ma quanta amarezza ancora non le lasciava pace in notti turbolente di lavoro disperatissimo, niente a che fare con bambole e dissolutezze. Per lui, e chi altri? Grande, grande, maledetti all'inferno lui, la cuoca, i dispiaceri che dava alla vista quella maledetta trave che lo lusingava diceva. E lo aveva anche reso felice, gli aveva dato dei figli, vivi, morti, cosa importava più? Non gli bastava niente, insaziabile era, lo diceva lui, mentre lei rimaneva china e pettinata a correggere e cancellare, sederglisi ai piedi, piangere in silenzio mentre tutti li festeggiavano e cosa ne sapevano. Ricopiare e trascrivere. E lui e il popolo e le solitudini alle quali la legava. Che si fosse dedicato anche un poco alla famiglia quando nessuna costrizione era malsana se non per lei e Platone e Seneca che non avevano sollevato che un grugnito dal divano in cui giaceva, l'amore solo alle popolane e a chissà chi altri. Tutto il resto del mondo ai piedi come lei. Grugniva come il porco qual era. Altro che devozione. L'avrebbe ammazzato col veleno che lui l'accusava di tenere in corpo, che coraggio. Stringeva i pugni Son'ja dietro quella finestra fiammeggiava intorno, davanti e dietro. A diventar vessillo del femminismo di poi a seni in fuori e giornaletti glamour. Non era valso a niente, polvere sui tomi in biblioteca. Neanche a saperlo dire, maledette troie con le loro pillole contraccettive. Non lo sapeva dire lei che non ne aveva usate mai di quelle parole, solo serpi germogliavano tra le fiamme e anatemi sgraziati al frutto del suo seno e ancora avanti. Era viva l'alba accesa di cenere e contraddizione, come mai aveva voluto, un sorriso stanco si spense sulle sue vesti d'infamia.


Caterina Bonfiglio






La casalinga di Voghera




La casalinga di Voghera si chiama Adele. Sin da piccina, un po’ come a Gertrude, le vennero regalati bambolotti da accudire e minipentole con cui spadellare fino all’esame della quinta elementare, che le fruttò l’agognato “dolce forno” e il permesso di cucinare qualcosa per davvero.
Finite le medie si trovò a dover scegliere una scuola superiore e si impanicò: nessuna scuola aveva quello che lei cercava perciò si iscrisse a un istituto commerciale.
Dopo il diploma accettò l’offerta di lavorare come cassiera nel bar vicino a casa pensando un po’ arditamente che potesse essere un buon posto per trovare marito. Era una ragazzina dolce e timida, con gonne sotto il ginocchio cucite in casa e le fossette sulle mani grassocce e non ci mise molto ad innamorarsi di Mario, un ragioniere di dieci anni più grande di lei che tutte le mattine alle otto entrava al bar e dopo averla educatamente salutata ordinava un latte tiepido macchiato senza pellicina. Il ragionier Mario, dopo sei mesi di latte e saluti timidi, si dichiarò una sera di novembre, venti minuti prima dell’ora di chiusura. Aveva preso coraggio e un vermouth a stomaco vuoto. Si sposarono in maggio: lei col velo candido e lui con le scarpe nuove lucide, un po’ strette. Decisero subito che lui avrebbe pensato al mantenimento mentre lei avrebbe badato alla casetta e ai figli, magari un maschietto e una femminuccia.
Adele pianificò la vita matrimoniale con la grinta del generale von Clausewitz: sveglia ore sette in compagnia della radio, alle otto latte tiepido per Mario, riassetto del letto e prima spolverata generale entro le nove, tra le nove e le dieci e mezza spesa al mercato che costa meno, poi bucato, pranzo, lavare i piatti e nel pomeriggio a rotazione: vetri, cera sui pavimenti, inamidatura e stiratura biancheria, battitura tappeti. Un paio di volte all’anno rinfrescata corredo e lavaggio accurato dei servizi buoni di patti e bicchieri. A questa routine si aggiunsero anche, nel giro di tre anni un bel maschietto per cui il papà scelse il nome Giuseppe e una femminuccia che lei volle chiamare Rossella. L’arrivo dei bambini modificò un po’ le abitudini di Adele che riuscì comunque a conciliare tutto egregiamente: gli impegni scolastici dei bambini e la faticosa manutenzione della casa. Adele cominciò anche a fare qualche conoscenza tra le mamme dei figli e così si concesse anche un pomeriggio ogni tanto a casa dell’una o dell’altra a bere una tazza di caffè e a chiacchierare di insegnanti e figli e di università da scegliere tra Milano o Bologna.
Un mattino di giugno, con i ragazzi all’Università, si svegliò con dei dolori addominali così forti da non trovare la forza di alzarsi. Si girò verso Mario e gli chiese se poteva prepararsi da solo la colazione perché lei non si sentiva molto bene. Lui si fece la barba e vestì per andare in ufficio brontolando che avrebbe fatto colazione al bar.
Quando i carabinieri la trovarono tutta insanguinata con in mano il pesante ferro da stiro con cui aveva sfondato il cranio di Mario, lei riuscì solo a balbettare frasi sconnesse sulla quantità d’amore che serve per preparare il latte tiepido senza pellicina per quarant’anni di mattine tutte uguali.
Adesso Adele vive nella cella più pulita del carcere. La sua ulcera è guarita e contrariamente alle altre detenute lei apprezza molto la routine del carcere con i suoi tempi scanditi. È rimasta una persona timida ma è sempre molto, molto gentile con tutti. Alla radio ha aggiunto anche la compagnia di un libro diverso ogni settimana. A volte le altre le chiedono un consiglio su come levare una macchia o fare un rammendo: allora Adele si illumina tutta e diventa quasi bella. 

Manubirba




Leonilde



14 luglio 1948. Dopo una lunga mattinata  finalmente lui le ha fatto un cenno:  ora possono uscire e andare a pranzo assieme. Per un’ora lo avrà tutto per sé, le verrebbe voglia di dare libero sfogo ai suoi istinti di ventottenne  facendo ruotare l’ampia gonna di cotone a pieghe  in un balletto di gioia ma si limita a precederlo con passo vivace per i corridoi verso la porta su via della Missione. Lui la segue col suo passo fermo e lei si sente sul viso il calore del sole e sulla schiena quello dello sguardo acuto di lui.
Appena uscita Leonilde sente un colpo di rivoltella. Istintivamente si  gira verso di lui ma non capisce subito. Lui la guarda e cerca di rassicurarla con un sorriso mentre porta le mani all’addome e tra le dita comincia a filtrare il sangue.
“Noo!” ha gridato lei e poi altri due colpi: un altro al torace e uno alla testa. Si è precipitata su di lui cercando di sorreggerne il corpo.  Gli ha premuto una mano sulla ferita, e gli ha sfilato gli occhiali con una carezza mentre gli uscieri arrivano correndo a prestare soccorso. Poi l’hanno sollevato e sempre correndo l’hanno portato nell’infermeria di Montecitorio. Lei quando ha smesso di tremare ha seguito la scia di gocce di sangue lungo il corridoio.
Davanti all’infermeria è stata bloccata dall’usciere capo: “Onorevole lei non può entrare, è una cosa grave, sta arrivando la moglie”. L’ha guardato dura con gli zigomi in evidenza sul pallora del volto ma ha trovato comprensione negli occhi dell’uomo “è cosciente – le dice - ha chiesto che gli chiamassimo Secchia. Appena si può lo portano al Policlinico. Vada a casa Onorevole e si dia una rinfrescata.” Leonilde si guarda le mani sporche di sangue rappreso, con la destra tiene per una stanghetta i suoi  occhiali tondi, li richiude dolcemente e li porge all’usciere: “Glieli porti dentro, è miope, li cercherà …” e si allontana con un cenno di saluto. Anche la gonna azzurra è tutta macchiata, l’aveva comperata pensando che forse gli sarebbe piaciuta vederla con addosso qualcosa di meno severo del solito, in un momento in cui  si sentiva solo una giovane donna innamorata.
Al fondo del corridoio una voce femminile  la chiama “Compagna, Nilde! Fermati” è l’Onorevole Rita Montagnana, la moglie. Lei si ferma e si volta lentamente, Rita la raggiunge ansimando: “volevo dirti che è grave ma è lucido, ha già detto a Secchia di tenere fermi i nostri. Corriamo un rischio gravissimo, i compagni potrebbero disseppellire  le armi.” Poi l’abbraccia e aggiunge sottovoce  “Lo so che vi amate e so che non è colpa di nessuno dei due. Vai a casa, cambiati e raggiungici al Policlinico. Riusciremo a passare anche questa. Vai!”
Nilde la guarda con gli occhi castani lucidi di lacrime, ricambia forte l’abbraccio e le sussurra: “Ci sarò -  e dopo aver deglutito aggiunge- “grazie Rita. Compagna”.



Manubirba








Nonna Abelarda e la ballerina







La scatola nera è sulla mensola da sempre so che nonna Abelarda non desidera che alcuno la manipoli. E' gelosa.
Ha occhi vivi. Piccoli e puntuti come quelli di un topo. Oddio ho sempre avuto paura dei topi, ma gli occhi di nonna Abelarda sono così belli. Neri, con un taglio che va verso l'alto, come un angolo sfuggente. Si staccano dal viso mobili, dotati di vita propria. Bellissimi in mezzo alle rughe copiose, alla pelle di pergamena, ai capelli bianchi copiosissimi e incolti, sotto al turbante sgargiante che la rende insolita come solo ella può.
Nonna Abelarda sfoggia sempre gonne larghe e piene di colori su stivali di gomma. Fanno comodo lungo le strade fangose, mentre passa a guado i rivoli e i ruscelli nei valloni umidi e profumati di macchia mediterranea.
I rovi le pinzano le maglie ruvide e grosse con le quali si difende dai rigori degli inverni ghiacciati.
Sono informi sulle sue spalle esili e nascondono la sua figura da gnomo difforme, su gambe torte da troppo lavoro. Il copricapo, coloratissimo e rigorosamente di lana, annodato come un turbante le lascia visibile solo il naso rosso e gocciolante.
Prendo in mano la scatola.
Ha il coperchio lucido e nero, di lacca, con intarsi di fiori bianchi in madreperla. 
L'apro. Al centro la figurina minuscola, con il braccio alzato e la manina elegantemente atteggiata, mentre il tutù tutto intorno alle gambe dritte in uno spasimo sulle punte, comincia lentamente a ruotare ora di qua ora di là.
La musica.

Cancella tutto. Si spande dolcissima mentre lei, la ballerina, gira. Poi accenna un plièe e allunga una gamba in avanti mentre l'altra si piega indietro, porta in avanti il busto con il capino ripiegato di lato.
Accanto  c'è un filo d'oro con una medaglia  e un anello d' osso con un volto stampigliato. 
Quando la vedi nell'alba invernale arrancare per trazzere di campagna, verso  boschi di rovi in cerca di asparagi, di bacche selvatiche e verdure di campo, non immagini che abbia mai indossato sottane di seta e collane di perle fino all'ombelico. Cappelli con fasce in ottomano e velette sugli occhi.
Non l'immagini mentre volteggia, fasciata di seta su tacchi grossi e calze pesanti, avvinghiata al suo uomo dai capelli neri e lucidissimi.
Lo stesso sull'osso dell'anello. Lo stesso sguardo fascinoso, quasi di profilo, mentre accenna un passo di tango e lei, la ballerina lo asseconda.
Adesso indietro docile piega di qua il capo e poi di là.
Ecco un passo indietro e si curva sulla vita, la crocchia di capeli neri sembra quasi sciogliersi.
Nonna Abelarda non è più nonna Abelarda: è fine e giovane, elegante e innamorata. Ha un uomo bellissimo e balla come una libellula. Magra e dritta come un fuso. Lo ama.
La guancia sulla guancia e poi un attimo egli la sfiora con un bacio. La musica  nel ritmo avvolgente, scivola tra loro e la gente, li isola, li accende. Ed ecco reclina il capo e stringe più forte la mano, la intreccia. Le nocche  impallidiscono tra le gemme.
Nonna Abelarda con i capelli candidi come trine di ghiaccio, scivola sul fango, si arrampica tenendosi alle radici, combatte ogni mattino nel gelo dell'alba la sua battaglia quotidiana. La senti imprecare e adirarsi  contro la solitudine, contro  la strada aspra e ingrata.
Ma poi sorride.
Scopre la bocca sdentata e in quel sorriso che immagino, per il viso  in ombra  contro il  sole, tanto da confondersi con la luce, c'è  tanta  bellezza.

Clotilde Alizzi

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