Lysiane
Si sta preparando, La Feria la attende in un carnaio di marinai con le verghe dritte, pronunciando sottecchi il suo nome morbido, vellutato, che richiama i mercantili in questi di Brest più delle committenze, come se le sue carni bianche, che solo lei (unica tra noi donne del bordello) orna con pizzi e sottane di colore nero; si illude, lei, di essere l’attrattiva, ma marinai muratori e sbirri, qui tra l’opalescenza del fumo e il fiato caldo, hanno ben altre voglie, intenzioni sottili: vengono a giocare a dadi con suo marito Nono, animale negro, dicono di lanciare i dadi per vincere la posta, lei, la tenutaria del bordello, soave e noncurante mentre nutre del suo sesso l’amante Robert; Nono rilancia i dadi e inveendo pareggia i conti con il mondo violando quegli uomini che dicono di voler scopare sua moglie, macché, lo sanno tutti, questi vengono per perdere, è diceria nota nei porti subtropicali, è la nomea di Nono ad accorciare longitudini e distanze ma di questo lei non sa e si illude e intanto chiama Robert, amore mio, per cercare consolazione in ore leziose, e intanto brama Georges Querelle e, guardando il vuoto, si perde nelle differenze dei loro membri e anela di giacere con entrambi, Robert e Georges, a coglierne affinità e diramare l’odio che li oppone e lega, Georges e Robert, più di quanto lei possa amarli, e si proclama dea della voluttà, vezzosa nelle sue moine, nell’enfasi dei sospiri trattenuti; si incipria il collo - lo specchio dà risalto al profilo del volto a tratti molle, gli anni passano -, si spazzola i capelli in cerca di trame e onde e armonie di pieghe e forme, quando lei si avvicinerà al piano – Robert, suona per me -, e da nota languida a languida voce lei canterà che ogni uomo uccide ciò che ama e sarà roco il suo timbro e sarà vago il suo sguardo e sarà suadente, tra afrori e caldo e odore di maschio, tra sigari e oscurità e freddo della notte che avvolge Brest e il suo porto, il suo passo ieratico e la leggerezza del polso e il gioco perverso delle mani ma adesso zitte, sta arrivando Madame Lysiane.
Giorgio D'Amato
Come sia finita a Brest è materia per romanzieri falliti. A me piace raccontare d'aver inseguito un amore. Uno di quelli di cui finisci per accontentarti. Non amo Nono più di quanto ora ami il vento di questa città. Capace di stordire, di impedirti di pensare. Di lasciarti muta a guardare il va e vieni di uomini sconosciuti, qui a la Feria. Il sale nell'aria invecchia i visi come tutti i rimpianti ricamati tra le palpebre e i sorrisi di circostanza. Così le piume non solo mi fanno chiaramente puttana, ma nascondono gli anni spalmati sul collo, sul seno, che ha smesso di cullare uomini stanchi per farsi scrigno di compensi altrui: le mie ragazze, i miei ragazzi. Non chiedo loro il sesso, ma di essere ciò per cui son pagati. Non conto i bicchieri a chi aspetta l'alba ai tavoli del mio locale. Ho smesso di contare anche i miei. Canto spesso che "ogni uomo uccide ciò che ama". Le donne invece sanno vegliare i cadaveri nella speranza che da un petto ormai freddo possa ancora nascere della dolcezza: quella di tutte le carezze che ho donato, togliendole dal conto. E adesso ragazze cantate voi. C'è vento oggi. Vado al porto.
Gianluca Meis
La piccola Elisa

In questo marasma di avvenimenti mondiali, ad inizio mese, il 2-2-22, nasce in un piccolo paese arroccato sulle colline dell’Appennino, Luisa Maria Teresa per tutti la piccola “Elisa” ultima di nove figli. Mite nel carattere ma un po’ troppo “spilungona” per i suoi tempi, cresciuta a pane e dibattiti politici tra papà antifascista e zio socialista, appassionata di lettura e ciclismo era la pupilla dei suoi fratelli. Ormai ritenuta dai più zitella, Elisa trova l’amore a 33 anni, un po’ troppi per quell’epoca, ma non tanti da impedirle di avere quattro figliole. Di idee moderne e progressiste, è favorevole al divorzio perchè: “è sempre meglio che scannarsi litigando”.
Ma a parte questo, Elisa nasce con un grandissimo dono: due mani miracolose. No, non faceva la pranoterapeuta, ma se prendeva un filo, le sue mani lo trasformavano subito in ricamo, intaglio, centrino, corpetto per un abito da sposa, eppure non faceva la ricamatrice. Se toccava una pianta ormai morta e sepolta questa rifioriva pian pianino, fino a sconfiggere quelle radici secche per tornare a inorgoglirsi sotto i suoi occhi, eppure non si occupava di botanica. Ancora oggi i suoi occhi un po’ liquidi inseguono punti alti, catenelle, giri, come una inappuntabile coreografia o guardano le foglie ingiallirsi e poi rifiorire tra le sue mani come nel ciclo delle stagioni.
Da lei erano andati esperti e luminari, giunti da ogni parte, tutti volevano capire cosa ci fosse in quelle mani miracolose che facevano rifiorire piante morte. Lei aspettava paziente, giravano e rigiravano le sue mani, guardavano, analizzavano, fotografavano. Alla fine tutti andavano via sconsolati ma con la stessa identica sensazione: come se una nuova linfa scorresse dentro di loro. Allora Elisa tornava a sedersi sulla sua poltrona, gli occhi rivolti alla finestra, a guardare oltre le case, a ricordare le sue vite passate, immaginare quelle future e le sue mani tornavano a brillare.
Oggi compie 90 anni e nessuno ha scoperto il segreto di quelle mani ma, quando le stringo tra le mie, sento una strana sensazione…come se una nuova linfa scorresse dentro di me.
Lucia La Gatta
Silvana, mia nonna
Mia nonna Silvana, la mamma di
mia mamma, nacque a Savona il tredici
ottobre del millenovecentodiciotto. Era la quinta di nove figli e si dice
che il bisnonno Ettore, agronomo, avesse per amante una cugina di secondo grado e che con la bisnonna Fiorina litigassero furiosamente per questo, i troppi figli e i pochi denari. La bisnonna l’aveva
voluto sposare a tutti i costi perché era bello e aveva gli occhi azzurrissimi,
ma questa è un’altra storia.
Il fatto è che mia nonna non è
mai stata nulla di simile all’idea che un bambino può avere di una nonna. Per
esempio mia nonna fumava. Ma non una o due sigarette dopo il caffè: lei si
incuneava quotidianamente nei polmoni un pacchetto di “Stop” senza filtro. Però
sosteneva che fosse volgare per una donna fumare per strada perciò quando
usciva per fare le sue commissioni per accendere la sigaretta si sedeva al bar. Tutta la casa
della nonna era permeata dalla puzza di fumo e da uno strato giallastro di
nicotina: un odore terribile. Eppure se qualcuno associa sua nonna al profumo
di torta di mele e a me viene il groppo in gola quando passa davanti a un
posacenere stracolmo.

Una cosa da nonna, oltre a preparare dei ravioli paradisiaci, la sapeva fare: lavorava benissimo a maglia. Bisognava supplicarla a lungo e il modello doveva piacere anche a lei, però il maglioncino che mi ha fatto per i miei diciott’anni è ancora nel mio armadio, perfetto come quando lo ha sferruzzato.
Nonna Silvana era anche terribilmente polemica, irragionevolmente critica, verbalmente aggressiva, prepotente, anaffettiva e brontolona. Per consolarti dopo una sbucciatura di ginocchio invece di darti una caramella o una coccola sentenziava: “è l’arte che entra!” e ti lasciava lì, perplessa con il sangue tamponato da un batuffolo di cotone. Per tutta la vita è stata in lite con almeno due o tre fratelli a rotazione ma ha adorato una cognata. Ha sfidato le perpetue del paese disertando la chiesa ma ha tolto il saluto a parenti lontani per aver divorziato. Ha avuto un padre fascista ma un marito partigiano.
Ricordo che nel duemilatre in chiesa, durante il funerale della nonna, mia mamma ha sussurrato a mia zia: “Se davvero esiste il Paradiso, papà da adesso ha finito di vivere”. Ecco questa era mia nonna Silvana ma io, sinceramente, non l’avrei voluta diversa da così.
Manubirba
Preghierina della sera

Caro Dio, lo so che non Ti prego spesso, ma, visto che sai sempre tutto, sai anche perchè non lo faccio mai: l'università, il lavoro, gli amici... Insomma, non mi rimane tanto tempo, e quel poco preferisco spenderlo in attività più piacevoli. Non è perchè non credo in Te: ci credo, che ci sei. Non farTi venire i complessi, che già Babbo Natale sta inguaiato.
Questa volta, però, ho bisogno di pregarTi almeno un po'. Se non Ti offendi, salterei il “Padre nostro”, che dopo “sia fatta la Tua volontà” non so mai bene cosa ci vuole, e non voglio fare brutta figura.
Mi rendo conto, in questo modo, di sembrare un pochino opportunista, ma quello di cui Ti voglio pregare è piuttosto importante. Comincio, quindi, pregandoTi di ascoltare la mia preghiera. Esaudirla è il passo successivo.
Prima di esporTi la questione, lascia che Ti metta al corrente di alcune cose che rigurdano la vita. Non voglio passare per presuntuosa: so benissimo che siamo figli Tuoi eccetera eccetera. Ma, fattelo dire, secondo me non siamo mai stati i Tuoi figli prediletti, ecco.
Insomma, è come se mia madre mi avesse messo al mondo e dopo qualche anno se ne fosse andata, lasciandomi a casa da sola, col gas aperto e la finestra chiusa. Non fai una bella figura davanti i tuoi colleghi.
Non voglio muoverTi critiche troppo pesanti, sia chiaro. Vado a spiegarmi.
Sono una ragazza come tante. Non sono una figa, non sono una cozza. Normale.
Spesso mi sento una chiavica, e allora vado a dare gli esami in tuta e coi capelli pinzati in un mollettone. A volte mi sento incredibilmente gnocca, e allora mi trucco come Moira Orfei anche solo per andare dal panettiere. Sono donna, ho gli sbalzi ormonali. E come me, tantissime altre donne nel mondo.
A noi piace, essere donne. Ci piace sul serio. Magari non a tutte, ma alla maggior parte sì.
In linea di massima, siamo contente di non essere maschi. Accettiamo senza troppe lamentele tutte le sfighe prettamente femminili: la sindrome premestruale, il ciclo, la gravidanza, i figli che da piccoli ti calpestano i piedi e da grandi ti calpestano il cuore, la menopausa, Hello Kitty. Tutto.
La nostra contentezza va scemando in pochissimi casi: quando dobbiamo aprire un barattolo ostinato, quando dobbiamo cambiare una gomma alla macchina, quando ci scappa la pipì e non ci sono bagni pubblici e/o bar nelle vicinanze. E basta. Ma anche in questi casi, non desideriamo essere uomini: ci basta che ci sia un uomo vicino a noi che ci aiuti. Siamo fiere della nostra “donnità”.
Ecco. È di questo che ti volevo pregare.
Perchè esiste un caso solo nel quale ogni donna desidererebbe ardentemente di trasformarsi all'istante in un nerboruto camionista con la passione per il body building. Un caso solo.
Un caso orribile, dal quale eravamo poco tutelate prima e dal quale, a partire da oggi, siamo ancora meno tutelate.
Oggi, 3 febbraio 2012, la Corte di Cassazione ha deciso che “nei procedimenti per violenza sessuale di gruppo, il giudice non è più obbligato a disporre o a mantenere la custodia in carcere dell'indagato, ma può applicare misure cautelari alternative”, fonte ANSA.
Non siamo, come la lettertura di serie zeta vuol far credere, creature delicate e da proteggere ad ogni costo, noi donne.
La maggior parte delle volte, siamo più simili a dei muri di pietra a secco, piuttosto che a dei fiori di pesco. Ma notizie del genere ti fanno davvero passare la voglia di vivere.
Lo stupro di gruppo, ci vogliono far credere, si può punire anche senza carcere.
E come?, mi chiedo.
La misura cautelare, di qualunque genere sia, si applica per evitare che l'indagato ripeta il reato prima del processo.
Siamo in Italia, ciò significa che il processo, quando parte, bisogna aspettarlo con santa pazienza. Sedici, diciotto mesi. Un po' come il Parmigiano. E noi per un anno e mezzo cosa facciamo? Lasciamo degli stupratori occasionali a piede libero.
Ora, io posso anche essere d'accordo con la decisione della Cassazione, purchè la misura cautelare alternativa sia una palla di piombo da trenta chili alla caviglia sinistra, una pala e via, ad asfaltare la Salerno-Reggio Calabria. Questa è l'unica alternativa che mi sento di concedere a questi umani. Sì, lo so che di solito si dice “a questi animali”, ma non me la sento di insultarli così. Gli animali.
Ma sono andata fuori dal seminato, Dio. Perdonami.
Ora hai chiara la situazione, quindi posso passare a farTi la mia preghiera con cognizione di causa: Dio onnipotente, siccome stasera è il mio turno di portare fuori il cane, trasformami in un uomo, grasso e barbuto, per nulla attraente.
Che manca poco più di un mese alla festa della donna, e non vorrei che la festa me la facessero prima.
Cordialmente,
una (poco) credente.
Agnese Casalegno
Era la fine degli anni 70. Poco più che adolescente, avevo da poco smesso di giocare con la barbie, andavo al liceo e fumavo qualche sigaretta di nascosto. Avevo anche già sbirciato qualche filmetto hard alla tv. Eh, sì, a quel tempo furoreggiavano le tv libere e in discoteca regnava Amanda Lear con la sua ambiguità sessuale. Ero alla spasmodica ricerca di un varco nel bozzolo che mi avvolgeva e che sentivo sempre più soffocante. La mia famiglia da sempre aveva l’abitudine di riunirsi la sera davanti alla tele e si guardavano insieme gli sceneggiati o qualche film. Ricordo, già quand’ero bambina, il crescente imbarazzo ogni volta che c’era qualche scena di effusioni, anche solo un semplice bacio un po’ più prolungato o un accenno di amplesso. Si restava tutti ammutoliti e sospesi finché i miei fratellini cominciavano a fare qualche risolino e allora mio padre, con fare perentorio, intimava di cambiare canale. A volte lo odiavo perché la storia era davvero bella e mi ci ero appassionata. Quanto detestavo quel proibizionismo assurdo. La mia famiglia era proprio un bell’esempio di moralismo. Si fa ma non si dice, tantomeno si guarda! E dunque, ecco che i miei fratelli avevano iniziato un intenso scambio illecito di giornalini porno. A volte mi intrufolavo di soppiatto in camera loro per vedere se ne trovavo uno. Eh, sì in quei giornalini c’era proprio di tutto. Le donne erano tutte simili alle barbie di cui sopra e si pomiciavano anche tra loro. Ricordo che per un po’ la cosa non mi dispiaceva ma subito dopo mi veniva la nausea. Credo sia stata forse la prima volta che ho sentito la parola lesbica.
La Malinche
Porta i capelli lunghi e sciolti, indossa vesti di cotone grezzo e non ha mai visto una barba, un cavallo o un cannone, però non è una che indietreggia o grida al miracolo di fronte alla novità, e proprio questa sua apertura al nuovo, al diverso, allo straniero, sarà quello che le rimprovereranno per secoli. Ma Malinal non ha colpa, guarda l’uomo possente dalla zazzera bionda che le sta davanti su quell’animale incredibile e forse intravede la svolta che avverrà nella sua vita, mentre pensa che certamente non è Quetzalcóatl anche se viene dall’Est, è un uomo, che respira e che sanguina se viene colpito, e come tutti gli uomini vuole le stesse cose degli altri.
Un dono propiziatorio consegnato insieme all’oro e al pellame, insieme a tante altre, a ventine, pur di pagare il conto. Questo è l’uso che gli uomini della sua terra fanno delle donne, che importa se nobile o meno, schiava fin da bambina, bottino di un’altra guerra con cui altri uomini si sono spartiti un pezzettino di terra. Poco importa se adesso il conflitto non è più tra genti che si somigliano e che non potrebbero essere più diverse, che gli spagnoli chiamano indios indistintamente anche sono ben lontani dall’essere un unico popolo, perché gli spagnoli semplificano, storpiano, impongono nomi che non esistono, e anche Malinal diventa Marina, Doña Marina quando sarà entrata nel letto di Cortés e l’avranno convertita ad una religione che ha già avuto il suo messia venuto dall’Oriente. Lui la vuole perché parla nahuatl e maya, e poi spagnolo nel giro di poche settimane. Gli spagnoli no, il nahuatl non lo imparano.

Malinal per la prima volta può parlare direttamente agli ambasciatori, addirittura guardare l’imperatore in persona dritto negli occhi mentre traduce le parole del conquistatore. Riferisce agli spagnoli che gente sono gli Aztecas, come combattono gli Aztecas, che quello è un impero tenuto su da fiammiferi, così basta un soffio, pochi uomini contro uno stato intero, e tutto crolla. Il suo nome cambierà ancora in Malintzin e poi in Malinche: così la chiameranno gli Aztechi e così indicheranno Cortés, quasi fossero la stessa entità, lei l’ombra di lui ovunque vada, a tradurre, a riferire, a partorire un figlio che non sarà riconosciuto. Esaurite le sue funzioni, lui la darà in sposa ad uno dei suoi soldati, un’altra volta bottino, tributo, dono, una cosa usata da cedere ai sottoposti, il suo nome diventato l’essenza stessa dell’infamia che deriva dal tradimento della patria, una patria che la Malinche non conosceva e che solo dopo tre secoli si è identificata con lo stato messicano, fatto da un popolo che nacque proprio dalla prima generazione di meticci di cui lei è una delle primissime madri.
Los hijos de la Malinche sono i figli di una donna che si è aperta allo straniero e l’ha fatto entrare nella sua terra e in se stessa, mentre lui si è impossessato di entrambe e poi le ha buttate via. Sono i figli che non perdonano alla madre lo stupro che li ha generati, e forse sono tutti i messicani.
Valeria Balistreri
Il mondo di Greta
...quand'ebbero camminato fino a mezzogiorno,
giunsero a una casina fatta di pane e ricoperta
di focaccia,
con le finestre di zucchero trasparente.
"Ci siederemo qui e mangeremo a
sazietà," disse Hänsel.
"Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Gretel,
mangia un pezzo di finestra: è dolce"...
Hänsel e
Gretel
fratelli
Grimm
Entrò nella stanza correndo
la bimba che quasi stava per inciampare e il merletto del suo abito bianco bianco e fresco fresco di ammorbidente
si sarebbe sporcato e strappato. L'ingresso sapeva di dopobarba e di mentolo perché
era domenica ed era arrivato lo zio che si rasava solo la domenica. E lei non
voleva contare i giorni della settimana, li sapeva certo, ma a lei non importava,
tanto sapeva che c'era la domenica che odorava di dopobarba e di mentolo perché
arrivava lo zio. E portava le paste. Dentro ad un pacchettino con la carta
gialla e il nastro rosso che teneva al mignolo che era un equilibrista lo zio.
Aveva i baffoni neri neri e duri duri che si pungeva le mani Greta quando
glieli afferrava forte e li tirava. E rideva lo zio con la sua voce grossa di
Babbo Natale. E lei rideva con la sua voce da topina che squittiva come
Rudolf, che era il suo criceto che girava nella ruota e non si annoiava mai.
Greta e il suo vestito bianco bianco che sapeva di ammorbidente la domenica.
Andava alla prima elementare e riempiva pagine di A e conosceva l'alfabeto
intero, e sapeva contare, e sapeva a memoria le canzoni dei cartone animati, e
giocava a fare la mamma con il suo bambolotto che faceva la pipì. E Greta
faceva la pipì. Dentro al letto una notte sì e una notte no e le piaceva tanto
svegliarsi col calore tra le gambe e il letto caldo. E la mamma la lavava e la
profumava con la colonia alle rose. Beveva il latte caldo e andava dritta a
scuola a riempire pagine e pagine di O. Come rideva con la sua bocca sdentata
di latte e le sue labbra rosse di fragole. E l'odore di mamma nelle ascelle.
Greta che indossava le sue scarpette blu e non le voleva togliere mai. Che
erano di velluto e Greta le accarezzava mentre la maestra spiegava come se ho
tre caramelle e la nonna me ne da due io ho cinque caramelle. Il velluto era
bello e morbido come il pelo di Gigio il gatto grigio. L'ultimo regalo di
natale.
Greta aveva la sua camera che sapeva ancora di nuovo, con le sue
bambole e i trucchi delle fatine, con le aluccie disegnate e gli amuleti e le
bacchette magiche. E sognava dentro al suo baule che c'era un altro mondo lì
dentro, “il mondo di dentro al baule”. C’era Oriol in quel mondo che la
prendeva per mano e a Greta sudava la mano ma rideva perché lui la accompagnava
in quel mondo. Era una meraviglia dentro al baule. Fiori
coloratissimi e mai visti, cavalli bianchi con la coda d’argento, gatti dorati
con occhi verdi, uccellini azzurri dal becco rosso, farfalle grandi come non
aveva mai viste, frutti strani dai colori forti e dal sapore dolcissimo. Poi
fiumi e laghi con alghe, pesci verdi e gialli, gamberetti azzurri, ostriche
blu, vongole arancioni e granchi bianchi come la neve. Greta che si incantava. E
non lo diceva a nessuno Greta che c’era quel mondo che poi tutti ci volevano
andare. Lo sapevo solo lo zio che sapeva di dopobarba e mentolo e che veniva la
domenica e lei si faceva trovare bellissima. Davanti allo specchio si pittava
le labbra di rossetto rosa e gli occhi verdi. Lo zio era uguale uguale a Oriol
che viveva nel baule. Solo che lo zio era più bello. Una domenica prese la mano
grande e forte e piena di peli dello zio e lo portò nella sua stanza e,
civettuola, gli mostrò le sue bambole e il bambolotto che fa la pipì come lei. E
i trucchi tutti in bella vista e l’orologio e il quadretto e le penne con le
piume e le bacchette magiche e gli amuleti che ti trasformano. E aprì il baule
Greta e prese per mano lo zio e lo accompagnò nel mondo incantato. E lo zio era
pure incantato. Era forte lo zio, grande e grosso coi suoi baffoni
neri neri e duri duri che si pungeva le mani Greta quando glieli afferrava
forte e li tirava. E lo zio si sedeva nella seggiola e Greta a cavalcioni su di
lui. E rideva Greta sopra al suo destriero con l’odore buono che era di
dopobarba e di mentolo. Con quella faccia liscia di velluto blu e i baffoni
neri neri e duri duri. A greta piaceva tanto lo zio che arrivava la domenica. E
portava le paste. Dentro ad un pacchettino con la carta gialla e il nastro
rosso che teneva al mignolo. Era un equilibrista lo zio.
Vito Bartucca
Il Testamento di Milada Horàkovà
Dondolo, com’è
normale per un impiccato, anche se in giugno a Praga è bellissimo, e pare che
la vita non debba mai finire.
Ho avuto un attimo di tempo, e ho capito come
funziona la morte: il ricordo diventa un
filo di bava luminoso e ti prende per mano, e ti porta rapidissimo ai sedici
anni del liceo e alle prime proteste pacifiste. I primi scontri con le autorità.
Ci sarà, un’autorità,
adesso, nel mondo che sto per incontrare?
Ecco, ho appena
visto la mia laurea in giurisprudenza, ero quasi bella, e ho toccato i miei sogni.
I sogni ci sono sempre, eccoli, quelli la morte non può prenderli: cominciano a
volare ed entrano nella testa di qualcun altro.
Chi vuole accogliere quelli di
Milada, nel giorno dell’esecuzione della sua condanna?
Nella mia testa che
ciondola e nel mio corpo oscillante c’è la resistenza e la Gestapo. Mi presero
nel 1940, mi torturarono com’è consueto, e di norma provarono a piegarmi. Non potevano,
non c’era niente da piegare: la libertà non ha una forma. E io rimasi straordinariamente
viva. Cinque anni in un campo non bastarono a darmi quello per cui avevo
combattuto.
Vedo ora i miei tre anni di vita! Li vedo chiaramente e
sento sul volto la primavera. Dal 45 al 48 a volo sulla Cecoslovacchia ho
ritrovato i diritti delle donne e degli ultimi e amato con un corpo che aveva di nuovo
umanità e decoro. Splendevo...
No, non
voglio più andare avanti! Il colpo di stato comunista, la fine dell’umanità. Le
dimissioni dal parlamento. Quale parlamento, quale governo, quale
Cecoslovacchia. Ora nessuno poteva più togliermi niente, dopo che avevo
ritrovato il senso delle cose. Dopo lo splendore. Non accettai di fuggire da Praga:
vai tu, mio amore, e porta via nostra figlia, che sedici anni sono pochi per vedere
impiccare una madre.
Io resto a
prendermi quello per cui ho combattuto.
Ora voglio
che finisca. Mi vedo nell’aula del tribunale. Spionaggio. Tradimento. Cospirazione.
Nomi che non conosco. Mi basta dire di no. La mia voce è alla radio, dal
governo fantoccio sono fatta esempio di viltà. Sorrido. Io non me ne vado.
Resto a prendermi
quello per cui ho combattuto.
I grandi
supplicano per la mia resa, Churchill, Einstein, Roosevelt: uomini a cui la mia
volontà è sconosciuta e che lottano per tenermi in vita.
Io però tengo
la testa alta: voglio la mia fottuta forca.
Sorrido al
boia: giusto un attimo fa.
Io, Milada
Horàkovà, di anni quarantotto, alle 6 del mattino del 27 giugno 1950, dopo aver fatto tutte
le guerre, dondolo nel cortile del carcere di Pankrác a Praga.
Com’è
normale, per un impiccato.
Roberta Lepri
Margherita C.
Mio marito Riccardo? Un pazzo da legare. Non poteva stare fermo con le mani nelle mani, doveva fare tante cose, e cioè casini di tutti i generi, oppure, nella migliore delle ipotesi farmi la manomorta e se non mi andava lui insisteva dicendo che dovevamo fare l’amore prima che venisse l’indomani. Perché?, domandavo io, domani forse diventi impotente? Non era possibile dissuaderlo. Di notte quando già dormivo lui iniziava a russare alla grande e io non potevo più riposare e seppure mi riaddormentavo al risveglio non riuscivo a scordare quanto russasse forte perché mi rimaneva come un fischio nelle orecchie. Che inferno di vita! Ogni notte era lunga, più nera del nero, avevo gli incubi anche ad occhi aperti e la luna a furia di guardarla mi sembrava sempre più grande da riempire il cielo intero. Appena faceva giorno e splendeva il sole mi ritornava il sorriso perché finalmente Riccardo se ne andava a lavorare e per un po’ si levava dai piedi. Ma il guaio era che la sera tornava a casa e pretendeva che io, stanca morta com’ero tra faccende domestiche e lavoro in ufficio, cantassi per lui tutte le canzoni che conoscevo! Va bene una volta, magari in occasione di qualche ricorrenza, ma tutte le sere era una bella tortura. A volte cantava pure lui, che tra l’altro era stonato come una campana, oppure si metteva a parlare per ore e ore, fino a notte fonda svegliando tutti i condomini che avrebbero voluto dormire anche loro in santa pace. Che inferno di vita! Certi pomeriggi domenicali quando ormai stremata crollavo dal sonno sul divano allora mi saltava addosso abbracciandomi forte perché aveva capito che avevo voglia di fare l’amore! Io? Io volevo soltanto dormire senza avere rotte le scatole! Il sabato cercava di fare il marito modello e mi accompagnava al supermercato ma spesso all’uscita si metteva a correre per strada, lui davanti e io dietro con tutti i pacchi della spesa! Riccardo fermati, gli urlavo, mi sono cadute le patate e la bottiglia del latte si è pure rotta! Fermati che non ce la faccio più! E lui sapete che cosa mi rispondeva? Ma no Margherita cara dopo che abbiamo corso adesso mettiamoci a ballare per strada perché so che ti fa gioire! Disgraziato, gli dicevo, a furia di correre abbiamo perso metà della spesa, un sacco di soldi buttati al vento! Io ti lascio! E lui rispondeva, non è possibile che tu mi lasci Margherita cara, io so che tu odi il rancore! In quei momenti vi giuro che lo avrei strozzato. Ma il peggio doveva ancora arrivare!
Un giorno fu preso dalla mania di uscire con dei secchi di vernice di tutti i colori. Li nascondeva nel portabagagli e quando meno me lo aspettavo si metteva a imbrattare muri, case, vicoli e palazzi e se la gente urlando ci minacciava dai balconi lui si limitava a sorridere e a dare la colpa a me, scusate, scusate diceva ma il fatto è che a mia moglie Margherita piacciono tanto i colori! Ve l’immaginate la reazione delle persone? I secchi di vernice ce li tiravano dietro e tornavo a casa con certi bernoccoli sulla testa che dovevo tenere per giorni la borsa del ghiaccio. Un’altra mania di Riccardo era poi quella di raccogliere fiori, il guaio è che non li raccoglieva nei prati ma li strappava nei giardini pubblici o li rubava ai fiorai. Abbiamo così accumulato decine e decine fra multe e denunzie. Ma lui non si preoccupava di nulla, sorrideva e diceva che dovevamo godere di quello che poteva darci la Primavera. Peccato che i carabinieri che venivano ogni tanto a trovarci non lo pensassero allo stesso modo. Che inferno di vita! L’ultima follia poi fu quella della costosissima culla gigante, tra l’altro mai usata, che commissionò a un architetto ritenendola più erotica e stimolante del nostro letto coniugale. Non ce la facevo più! Dovevo uscire da quell’inferno ma non sapevo come. Poi una sera Riccardo salì sul tetto del palazzo. Distrusse numerose antenne televisive compresa la nostra e dire che quella sera mandavano in onda l’ultima puntata del mio sceneggiato preferito! Decisi di raggiungerlo sul tetto. Perché hai fatto questo macello? urlai. Lui mi guardò tutto ispirato dicendo che voleva su salire nel cielo per prendermi una stella. Ma chi te l’ha chiesto? urlai ancora. Perché tu Margherita sei buona, mi rispose, sei bella, sei dolce, sei vera, sei la mia pazzia. No, risposi furente, non sono io la tua pazzia, sei già pazzo di tuo e questa è l’ultima stronzata che fai! Gli mollai un ceffone, perse l’equilibrio, e mentre stupito cadeva nel vuoto, mi dedicò l’ultima frase della sua vita: “Margherita non sa che può far male”.
Un giorno fu preso dalla mania di uscire con dei secchi di vernice di tutti i colori. Li nascondeva nel portabagagli e quando meno me lo aspettavo si metteva a imbrattare muri, case, vicoli e palazzi e se la gente urlando ci minacciava dai balconi lui si limitava a sorridere e a dare la colpa a me, scusate, scusate diceva ma il fatto è che a mia moglie Margherita piacciono tanto i colori! Ve l’immaginate la reazione delle persone? I secchi di vernice ce li tiravano dietro e tornavo a casa con certi bernoccoli sulla testa che dovevo tenere per giorni la borsa del ghiaccio. Un’altra mania di Riccardo era poi quella di raccogliere fiori, il guaio è che non li raccoglieva nei prati ma li strappava nei giardini pubblici o li rubava ai fiorai. Abbiamo così accumulato decine e decine fra multe e denunzie. Ma lui non si preoccupava di nulla, sorrideva e diceva che dovevamo godere di quello che poteva darci la Primavera. Peccato che i carabinieri che venivano ogni tanto a trovarci non lo pensassero allo stesso modo. Che inferno di vita! L’ultima follia poi fu quella della costosissima culla gigante, tra l’altro mai usata, che commissionò a un architetto ritenendola più erotica e stimolante del nostro letto coniugale. Non ce la facevo più! Dovevo uscire da quell’inferno ma non sapevo come. Poi una sera Riccardo salì sul tetto del palazzo. Distrusse numerose antenne televisive compresa la nostra e dire che quella sera mandavano in onda l’ultima puntata del mio sceneggiato preferito! Decisi di raggiungerlo sul tetto. Perché hai fatto questo macello? urlai. Lui mi guardò tutto ispirato dicendo che voleva su salire nel cielo per prendermi una stella. Ma chi te l’ha chiesto? urlai ancora. Perché tu Margherita sei buona, mi rispose, sei bella, sei dolce, sei vera, sei la mia pazzia. No, risposi furente, non sono io la tua pazzia, sei già pazzo di tuo e questa è l’ultima stronzata che fai! Gli mollai un ceffone, perse l’equilibrio, e mentre stupito cadeva nel vuoto, mi dedicò l’ultima frase della sua vita: “Margherita non sa che può far male”.
Laura Mancuso
Martina Navratilova

Non vi dico il disagio che provai quando, guardando una volta la televisione, sentii il commentatore attribuire a una tennista famosa pruriginose storie con donne. Sì, quella certa Martina Navratilova ha un’amichetta particolare e intanto la telecamera indugiava sul volto della sua compagna del momento, una texana bionda piuttosto vistosa, tra colpetti di tosse e risatine imbarazzate. Ho sempre avuto la netta impressione che i telecronisti provassero una malcelata invidia per Martina. Le sue partner erano sempre molto belle. Non vi dico il controcanto nel salotto buono di casa mia : « Ma guardala, sembra un uomo. Che schifo!» Ecco fatto, neanche una partita di tennis si poteva guardare in santa pace! E giù commenti e malignità da parte del giornalista. Che guazzabuglio provavo. Le immagini delle barbie porno in qualche giochetto erotico con uomini superdotati si sovrapponevano a quelle di questa bionda cecoslovacca in lotta col mondo. Anche lei, come me, così tristemente sola nell’arena della vita però con un coraggio da leonessa.
Sono rimaste leggendarie le sue partite con Chris Evert, un’esile e caparbia tennista statunitense dall’aspetto molto femminile. Le due si sono contese lo scettro di migliore tennista del mondo per un ventennio. Chris, indomita signora del fondocampo, trapassava le compagne a rete con dei fulminei passanti. Martina, dotata di un servizio e volé impressionanti, era imbattibile sotto rete. Nelle loro epiche partite si scontravano anche due modi diversi di giocare la vita, non solo il tennis. Chris rappresentava un tipo di donna molto più rassicurante, mentre Martina era la trasgressiva amazzone che sicuramente sotto il gonnellino nascondeva qualche arma inconfessabile. Ricordo che per il suo aspetto molto muscoloso e androgino è stata a lungo guardata con sospetto.
Già nel 1981 Martina aveva dichiarato pubblicamente il suo orientamento sessuale destando clamore e scandalo nel mondo così convenzionale dello sport Da allora sono diventata una sua fan, non solo per le volée e la fantasia ma anche per la sua fragilità, umanità e la sua grinta. Non si è mai nascosta e ha vissuto le sue storie con altre donne con assoluta normalità. A casa mia continuano a considerarla uno scherzo della natura ma lei, alla tenera età di 54 anni, si sta ancora battendo per i diritti dei gay e vive la sua vita alla luce del sole. Un esempio di limpidezza e dignità. Dopo di lei sono venute allo scoperto molte altre tenniste e atlete lesbiche e il lesbismo, grazie anche a Martina, non è più un amore senza nome o, peggio, una pratica pornografica da pervertite. E’ vero, anche oggi c’è qualche pazza furiosa che, come Margaret Court (eccelsa campionessa di tennis australiana lei stessa) vorrebbe ricacciare tutti i gay e le lesbiche nel buio o farli curare. Ma è proprio grazie alla strada battuta da Martina che le deliranti parole di Margaret Court suonano ancora più assurde.
Nella sua lunga carriera, Martina ha vinto molti tornei, entrando nella leggenda del tennis,ma soprattutto rimarrà un’icona di emancipazione femminile.
Vorrei chiudere con una provocazione: la storia di Martina Navratilova ha dimostrato una volta di più che le donne sono molto più avanti degli uomini. Quanto ancora dovremo aspettare perché un calciatore si decida a fare coming out?
Bea Ary
La circe della Versilia
Forte dei Marmi 1989
“Sono le 21.35. Luciano non è ancora tornato. Di sicuro sarà andato a Follonica per scoparsi quella troia di Agata. Al telefono mi ha detto che doveva risolvere dei problemi di lavoro o meglio di quello che lui si ostina a chiamare lavoro. Crede che io non abbia capito come l’agenzia immobiliare gli frutti solo la minima parte di quello che in effetti guadagna? Il suo vero lavoro è quello di succhiare il sangue ai disperati che gli chiedono prestiti. Ho un marito strozzino. Una vergogna per chiunque ma non per me! Dopotutto che me ne frega? Fatti suoi. Io sono al di sopra di tutto. Io posso fare di tutto. Senza limiti o proibizioni. Spendere, spandere e godere dei suoi soldi! Ecco quello che mi interessa. Luciano non può dirmi né farmi nulla. E se lui scopa con Agata io gli metto le corna con chi mi pare! Una donna come me può forse accontentarsi di un vecchio di quasi settant’anni? Che schifo mi fa! Ormai non mi tocca da tempo. Ha capito che vederlo nudo mi fa venire il vomito ma non ha ancora capito che ciò che detesto è soprattutto vederlo ….”vivo”.… Questa è l’ultima sera della tua vita marito mio. Torna pure a casa. Mi troverai attenderti con ansia per condurti in garage. Ti ho preparato una bella sorpresa. Vedrai…Ho sentito il rumore di un’auto. E’ lui. Devo mostrarmi indifferente. Non deve capire nulla di quanto lo aspetta. Mi faccio trovare in camera da letto o davanti il televisore? No è meglio farmi trovare in bagno magari intenta a lavarmi i denti….La porta si apre. Eccolo. Mi guarda con disappunto. Non ha ancora digerito il fatto che io abbia portato qui a casa Carlo. Non capisco perché abbia fatto tante storie. Dopotutto lui sa della nostra relazione. Ah già…bisogna mantenere la facciata. Stupido ipocrita che sei. Avrei voglia di dirti quel che penso di te ma stasera non posso…stasera devo essere diversa, magari non proprio dispiaciuta ma almeno un pochino più conciliante altrimenti chi convince questo stronzo a scendere in garage? Gli vado incontro con un sorriso che non sfoggio con lui da parecchio tempo. Stupito mi chiede non dovevi uscire con quel babbeo stasera? No - rispondo abbassando gli occhi verso la punta dei miei sandali dorati. No - ribadisco con aria quasi afflitta. Lui insiste incredulo - ma sei vestita come se dovessi andare a ballare. No - ripeto - io e Carlo abbiamo litigato. Non dirmi che è finita tra di voi - osserva lui beffardo - non ti fa divertire abbastanza il giovanotto? Luciano basta…- rispondo - non ho voglia di parlarne. Vorrei solo andare a letto a riposare ma…dove vai? Lui mi volta le spalle e si dirige verso il telefono. Guardo l’orologio. Il tempo stringe. Sono già le 21.45. Lo sento parlare. La sua voce è disgustosamente sdolcinata. Sta parlando con Agata. Questa telefonata non ci voleva. Spero non le dica che io sono in casa con lui. Che cazzo avrà ancora da dirle? Ah meno male ha già terminato…le ha solo dato il bacio della buona notte. Che cretino. Torna indietro verso di me. Gli rivolgo uno sguardo preoccupato.
Che hai adesso? mi chiede. Luciano…scusa non vorrei disturbarti ma credo di avere perso un braccialetto in garage…sai quello di tua madre…Lui cambia faccia perché si tratta di un oggetto a cui tiene molto. Prende le chiavi del garage. Non riflette nemmeno sul fatto che io potrei avere perso quel gioiello in qualsiasi altro posto. Continua a borbottare inferocito - non dirmi che l’hai perso? Perché te lo metti sempre? Non hai altri bracciali altrettanto belli da sfoggiare? Cerco di calmarlo - dai Luciano quel braccialetto è roba fine e lo indosso per sentirmi più chic…l’ho cercato dappertutto ma in casa non c’è e di sicuro mi sarà caduto in macchina o a terra in garage. Dai non mi dare il tormento…accompagnami giù a cercarlo…ti prometto che non lo metterò più. Pronunzio queste ultime parole con il tono di una scolaretta pentita. Lui mi guarda ancora con severità poi esce borbottando va bene vado a cercarlo ma se non lo trovo ….Non ti preoccupare - rispondo - sto scendendo giù anch’io… lo cercheremo insieme e vedrai che lo troveremo. La saraniscesca del garage si solleva lentamente. La luce del lampione accende il metallo di strani luccichii. Sono dietro Luciano. Sento il suo respiro ansante. E’ l’ira che a stento trattiene. Non sa che cosa lo aspetta. Non lo immagina proprio. Non può immaginare quanto sia grande il mio odio per lui. Nella penombra vedo la mano di Luciano toccare l’interruttore della luce del garage. Luce bianca al neon. Entra deciso ma con il capo rivolto verso il pavimento in cerca del prezioso bracciale della cara mamma. Cammina lentamente perlustrando centimetro dopo centimetro il suolo. Si porta fino al punto in cui Carlo nascosto dietro una scaffalatura con un balzo finalmente si scaglia contro di lui. I due uomini sono l’uno contro l’altro. Lottano. Resto ferma in un angolo per assistere alla scena, per godermela minuto per minuto. Non c’è speranza per Luciano. E’ vecchio e non può resistere alla violenza di quell’attacco improvviso. La lama del coltello si conficca con un sordo rumore nel corpo senza forza di Luciano. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette coltellate e poi non riesco più a tenere il conto. Carlo sembra una furia selvaggia. Luciano emette degli orribili mugolii di morte. E’ ormai un corpo straziato che giace sul pavimento in un lago di sangue. Non provo nulla. Non posso provare nulla. L’unica cosa che penso è che dobbiamo uscire subito da qui. Rimetterci in ordine. I ragazzi ci aspettano in auto. Dobbiamo chiudere il garage e correre via. Carlo ha i vestiti macchiati. Ha bisogno di cambiarsi al più presto. E’ sconvolto. Devo cercare di calmarlo. Il tempo stringe. Il tempo stringe. Ormai tutto è fatto. Adesso dobbiamo solo pensare a costruirci un solido alibi. Faremo un lungo giro per i tutti i locali alla moda. Balleremo e berremo spensierati. Poi stanotte tornerò qui con i miei figli per scoprire il fattaccio. Non ci saranno problemi. Saprò dipingere sul mio volto lo sgomento di una donna che trova il proprio marito assassinato…
Laura MancusoChe hai adesso? mi chiede. Luciano…scusa non vorrei disturbarti ma credo di avere perso un braccialetto in garage…sai quello di tua madre…Lui cambia faccia perché si tratta di un oggetto a cui tiene molto. Prende le chiavi del garage. Non riflette nemmeno sul fatto che io potrei avere perso quel gioiello in qualsiasi altro posto. Continua a borbottare inferocito - non dirmi che l’hai perso? Perché te lo metti sempre? Non hai altri bracciali altrettanto belli da sfoggiare? Cerco di calmarlo - dai Luciano quel braccialetto è roba fine e lo indosso per sentirmi più chic…l’ho cercato dappertutto ma in casa non c’è e di sicuro mi sarà caduto in macchina o a terra in garage. Dai non mi dare il tormento…accompagnami giù a cercarlo…ti prometto che non lo metterò più. Pronunzio queste ultime parole con il tono di una scolaretta pentita. Lui mi guarda ancora con severità poi esce borbottando va bene vado a cercarlo ma se non lo trovo ….Non ti preoccupare - rispondo - sto scendendo giù anch’io… lo cercheremo insieme e vedrai che lo troveremo. La saraniscesca del garage si solleva lentamente. La luce del lampione accende il metallo di strani luccichii. Sono dietro Luciano. Sento il suo respiro ansante. E’ l’ira che a stento trattiene. Non sa che cosa lo aspetta. Non lo immagina proprio. Non può immaginare quanto sia grande il mio odio per lui. Nella penombra vedo la mano di Luciano toccare l’interruttore della luce del garage. Luce bianca al neon. Entra deciso ma con il capo rivolto verso il pavimento in cerca del prezioso bracciale della cara mamma. Cammina lentamente perlustrando centimetro dopo centimetro il suolo. Si porta fino al punto in cui Carlo nascosto dietro una scaffalatura con un balzo finalmente si scaglia contro di lui. I due uomini sono l’uno contro l’altro. Lottano. Resto ferma in un angolo per assistere alla scena, per godermela minuto per minuto. Non c’è speranza per Luciano. E’ vecchio e non può resistere alla violenza di quell’attacco improvviso. La lama del coltello si conficca con un sordo rumore nel corpo senza forza di Luciano. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette coltellate e poi non riesco più a tenere il conto. Carlo sembra una furia selvaggia. Luciano emette degli orribili mugolii di morte. E’ ormai un corpo straziato che giace sul pavimento in un lago di sangue. Non provo nulla. Non posso provare nulla. L’unica cosa che penso è che dobbiamo uscire subito da qui. Rimetterci in ordine. I ragazzi ci aspettano in auto. Dobbiamo chiudere il garage e correre via. Carlo ha i vestiti macchiati. Ha bisogno di cambiarsi al più presto. E’ sconvolto. Devo cercare di calmarlo. Il tempo stringe. Il tempo stringe. Ormai tutto è fatto. Adesso dobbiamo solo pensare a costruirci un solido alibi. Faremo un lungo giro per i tutti i locali alla moda. Balleremo e berremo spensierati. Poi stanotte tornerò qui con i miei figli per scoprire il fattaccio. Non ci saranno problemi. Saprò dipingere sul mio volto lo sgomento di una donna che trova il proprio marito assassinato…
Celia

Non scrivi più, non ti sento più, e sapendo quello che fai spesso mi faccio prendere dalla paura. Saperti là però, sono orgogliosa. Così mi riparo nei ricordi, anche se non mi dispiace che non ci sia più nessuno a giocare col pallone fuori casa. Poi mi sento sciocca e ripenso a quando ti avevo con me, da sgridare o consolare per i lividi e le botte.
Hai ancora la tosse? Quella brutta tosse che non passava mai, neanche la notte.
A volte sai mi sembra di sentire la “poderosa” accesa nel cortile: e guardo fuori col cuore in gola e grido: Fuser, Fuser è ritornato. Poi resto lunghi minuti a guardare il prato...e quante raccomandazioni quando partisti con Alberto, nel ’51. Quella moto era già tanto che si accendesse, eppure l’hai voluta chiamare “poderosa”…dicevi che era come me: piena di acciacchi, ma forte per affrontare ancora mille viaggi.
L’altro giorno alla radio parlavano di te, ma ho capito poco, lo sai che di politica non mi intendo: ma le parole erano molte belle! Parlavi di sacrifici per il lento cammino della libertà. Lo so che le raccomandazioni di una vecchia sono solo dei lamenti fastidiosi, ma ti prego riguardati.
Ti salutano anche Anna e Juana. Sapessi come si è fatta bella quest’ultima. Le ho mostrato una tua foto e ho visto che i suoi occhi hanno brillato. Appena torni voglio proprio fartela conoscere.
Ti bacio Ernesto.
Celia
Gianluca Meis
(da una canzone di Roberto Vecchioni)
Emily
Chi è questo pomeriggio?
È Glendale, quello che sta all’inizio di Main Street.
Glendale? Ma non era già morto? Oddio, che domanda senza senso…come fa uno a morire due volte?
Quel Glendale che pensi tu era suo figlio morto martedi. Poi giovedi è morta sua moglie di parto e ora lui. Hanno già spedito la piccola Georgina a lavorare a Londra e speriamo che si salvi Richard.
Richard?
L’altro loro figlio di 4 anni. Oh, Emily, non ti ricordi niente? Sembri sempre fuori dal mondo! Il povero Richard ha una grave infezione all’intestino, lo stanno curando,ma non ci sono molte speranze.
Tac tac tac. Tac tac tac. Tac tac tac.
Non so come tu faccia a stare qua tutti i giorni con lo scalpellino sotto casa, Emily.
Siamo nati, dobbiamo morire, no? Guarda! Ne sta arrivando un altro.
Tac tac tac. Tac tac tac.
Perché non vieni come me a lavorare in quella casa? Staresti un po’ lontana da…da…da tutta questa morte.
La morte fa parte di noi, della nostra vita. Charlotte, quante volte te l’ho detto che voglio stare a casa. Sono felice qua a casa. Quando siamo andate in Belgio o negli altri posti a lavorare, lo sai, era sempre una sofferenza. Sto bene qua, accudisco nostro fratello, nostro padre, la cucina, la casa. Intanto penso, penso a cosa scrivere. Vai tu fuori a lavorare.
Tac tac tac. Tac tac tac. Tac tac tac.
Io non riesco a stare qua a lungo di giorno. La notte almeno non si sente il rumore della morte.
Tac tac tac. Tac tac tac.
Un’altra madre che piange il figlio. Lo scalpellino incide il suo nome. Un figlio che piange il padre. Un altro scalpellino incide il suo nome. Chi piange e chi allarga il portafoglio.
Dicono che siano le condotte dell’acqua infettate.
Le condotte dell’acqua?
Sì, Emily. Quelle che passano sotto casa nostra e qua sotto il cimitero. Almeno così ha sentito Branwell l’ultima volta che è stato in farmacia.
Tac tac tac. Tac tac tac.
Io vado a scuola, i ragazzi mi aspettano. Ci vediamo dopo.
Keeper, fammi mettere a posto la cucina e poi che ne dici di andare a fare una passeggiata?
Wolf!
Bene. Non morire anche tu nel frattempo, sennò potrei morire anch’io.
Wolf!
Tac tac tac. Tac tac tac. Tac tac tac.
Keeper, vieni qua! Lascia stare le pecore! Lo sai, quando ti vedo correre nella tua possanza mi ricordi Heathcliff. Quel bastardo dannato selvaggio di Heatchliff.
Buona passeggiata, Miss Bronte.
Mi lasciassero in pace! Cosa vogliono da me questi impiccioni? Non voglio i loro saluti, né le loro parole vuote, senza senso, piene di luoghi comuni. Keepers, quanto vorrei che le persone fossero come te! Noi non abbiamo bisogno di parole, è nei silenzi che ci capiamo.
Sì, Keeper, sì, ora ce ne andiamo alla cascata, no, non vogliamo impiccioni noi. Scommetto che quando morirò nessuno di questi verrà. Nessuno del paese verrà. Sarà tanto se verrà lo scalpellino a scolpire il mio nome sulla lapide! Oh per allargarsi il portafoglio verrà. Questi no, questi non verranno al funerale di una pazza solitaria vestita di nero che passeggia ogni giorno con un dannato bastardo selvaggio. No, non verranno e sarà meglio! Voglio solo te, Keeper. Prometti che verrai.
Wolf!
Lo so che lo farai. E per ringraziarti ti faccio sentire quello che ho scritto ieri notte:
Un tempo ardeva in me la passione
di svelare le menzogne di quei demoni
la mia natura ribelle sdegnava
la legge che proibiva la sfida
oh nei giorni dell’ardente giovinezza
per la verità avrei dato la vita.
Per la verità, la libertà, il diritto
avrei offerto liberamente la vita
ora ascolto e vedo in silenzio
l’uomo vano sorridere lo sciocco irridere
non perché il mio cuore sia domato
non per timore non per vergogna.
Smania ancora il mio spirito ribelle
al suono dell’errore cieco e egoista
ancora il mio cuore sfida il mondo
corazzato come un tempo contro ogni terrore
ma ora so che è vano il mio sdegno
il mondo segue e seguirà il suo corso.
A Charlotte è piaciuta, dice che è rimasta colpita da quello che ho scritto. Tu cosa ne pensi? Ti piace? O preferisci quella pecora laggiù?
Andiamo a casa di Heathcliff, dai. Lo so che ci vuoi andare.
Wolf!
Sì, mio padre non vuole che ti rotoli sulla neve, ma noi ci divertiamo, no? Io medito, penso, vedo, mi faccio ispirare dalla brughiera, dal vento, dai corvi, dal silenzio, dalle colline e tu ti rotoli e corri. Sei veramente lui.
Vai, Keeper, vai, corri felice. Almeno tu.
Serena Piccoli
Da ciccibello alla Barbie: una educazione sentimentale

Dopo la bambolina feticcio, arrivò il primo Cicciobello, il bambolotto che piangeva quando lo premevi sulla schiena. Smetteva solo se gli davi il succhiotto. Era biondissimo, coi boccoli e gli occhi azzurri. Ricordo ancora distintamente l’odore di lattice e colla che emanava. Aveva la sua bella carrozzina e ogni giorno lo mettevo a dormire finché io leggevo o scrutavo lo specchio in cerca di ispirazione per nuovi giochi.
Poi un giorno mi regalarono Cicciobello pipì, un bambolotto che beveva il latte dal biberon e mi dava un’enorme soddisfazione. Che meraviglia vedere quel liquido bianco lattiginoso sparire nella sua boccuccia rosata. Lo stupore e l’attesa più grande però era riservata al sacro momento della minzione!! Cicciobello Pipì, infatti, era proprio come un bimbo reale e la faceva davvero! Ero al settimo cielo.
Ad un certo punto, avevo accumulato un discreto numero di bambolotti ed ero diventata, come mia madre, una chioccia isterica. Così, decisi di emanciparmi e accantonai l’ultimo Cicciobello per darmi alla vita mondana. Fu il periodo che mi presi una cotta per lei, Barbie. Ricordo ancora distintamente il piacere che provavo accarezzando i suoi lunghi capelli dorati e manipolando all’infinito il suo corpo allungato, snodato e snello. Barbie aveva anche un discreto guardaroba per ogni occasione e mi divertivo a cambiarla di continuo. Avevo una passione speciale per le scarpine. Minuscole, colorate e tutte rigorosamente col tacco alto. Ecco un nuovo mondo da vivere e riempire di storie. Tutto questo mi portò alla mania delle manie: non smettevo più di giocare a un curioso gioco da tavolo che si chiamava “La Reginetta del Ballo”. Ricordo maratone di ore per incoronare la partecipante più glamour. Era un vero parossismo di edonismo e spensieratezza. Tutto così tremendamente semplice e scontato. Un tripudio di stereotipi rassicuranti.
La mia ultima Barbie, però, aveva una relazione complicata con la sua amica del cuore, Tanya e soffriva molto. A quel tempo Barbie era ancora fidanzata con Ken, un aitante ragazzo biondo con gli occhi azzurri. Aveva la riga in parte e i capelli leggermente ondulati. Stava sempre col suo amico Alan. Erano entrambi molto sportivi. Bastava dargli una spider o una tavola da surf e non li vedevi più per delle ore. Non mi è mai interessato più di tanto sapere quel che facevano insieme. Diciamo che avevo molto più interesse per Cicciobello perché almeno lui piangeva, faceva la pipì e beveva dal biberon. Ken invece aveva sempre quel sorriso idiota stampato sulla bocca e non avrebbe saputo distinguere un Caravaggio da un Michelangelo.
La cosa curiosa è che la mia ultima Barbie ha provato in tutti i modi a farmelo capire. Quando io la facevo baciare con Tanya, le piaceva un sacco, molto più i quando doveva sopportare quell’alito pesante di Ken. Ma io, imperterrita, le facevo fare sempre i soliti giri di walzer e i soliti viaggi in camper con quell’impiastro di Ken e del suo amico. Meno male che poi ho smesso di tormentarla e almeno lei si è fatta la sua vita. Di recente, mi ha mandato una cartolina. Lei e Tanya vivono a San Francisco e organizzano crociere per sole donne ai Caraibi.
Non è tutto, ho pure saputo che Ken e Alan hanno adottato il mio Cicciobello e vivono felici a Manhattan.
Nel frattempo, io son quasi riuscita a farmi venire una depressione e c’ho messo vent’anni a capire che quella barbie ero io.
Bea Ary
Le Kessler

Alice ed Ellen Kessler nascono nel 1936 a Lipsia, sono un groviglio di gambe che l’ostetrica non sa come districare , ma dopo qualche ora grazie allo svitol , riesce a dare ad ognuna di loro il suo paio senza mischiare le rotule.
Con gli anni le gambe si allungano, Alice ed Ellen si trasformano in due bonazze tedesche alte, bionde e fighe qb, che a differenza della Merkel cambiano per sempre i sogni erotici dei maschi Italiani e la TV bacchettona degli anni “60 con il loro Varieta’.
DADAUMPA
Indossavano costumi di scena considerati succinti, ma mai , e poi mai ne’ una chiappa ne’ una tetta fecero capolino da quei costumi. Tutto quel Teutonico ben di Dio era ben compresso fino a scoppiare nei body armatura , decorati da piume e pailletes che si potevano solo immaginare al di qua della TV.Il 21 ottobre 1961 il loro debutto in TV
"Spaccarono” il tubo catodico cantando e ballando in pesante calzamaglia nera di lana merinos , assolutamente vergine come richiesto dalla censura di quei tempi : “Hello boys, traversando tutto l'Illinois, valicando il Tennessee, senza scalo fino a qui, è arrivato il DADAUMPA DADAUMPA..” , ignare che 50 anni piu’ tardi le sorelle Lecciso avrebbero cercato di copiarle con risultati da Circo Orfei.
Cosa fosse poi l DADAUMPA oggi ancora nessuno lo sa.
Il testo della canzone era folle poteva benissimo essere stato scritto da uno psicopatico ma una volta ascoltato era impossibile scordarselo, inciso per sempre nella memoria a lungo termine.
“Canzonette” direbbe qualcuno oggi , ma chissenefrega aggiungo io stasera. Le canzonette restano, i testi delle grandi canzoni si perdono e nessuno se li canta mai sotto la doccia.

Ahh le Kessler, due Barbie in carne ed ossa due donne che oltre alle gambe c’e di piu’ , magari anche qualche pelo che comunque non si poteva vedere sotto gli spessi collant.
A proposito di collant , se un culo come quello della Hunziker ha pubblicizzato un paio di mutande, due gambe come quello delle KESSLER mica potevano pubblicizzare i calzettoni di spugna ? E allora wala’: OMSA CHE GAMBE fu lo spot.
LETTERA DI LUCY WESTENRA A MINA HARKER (Mai spedita)
Cara Mina,
Sono felicissima per le tue nozze
con Jonathan, mi chiedo se anch’io avrò il tempo di sposare il mio amato
Arthur. Ho solo vent’anni, lo so, ma la malattia sta prendendo il mio corpo, le
mie forze da qualche tempo cominciano a mancare. Purtroppo il mio caro dottore
e amico Jack Seward non ha ancora capito quale sia il problema, lui e il dott.
Van Helsing si prendono cura di me da qualche giorno.
Oggi mi sono guardata per la
prima volta allo specchio da quando è iniziato tutto, la mia pelle è diventata
bianca (ho sentito Jack che la definiva “color del gesso”), riesco quasi a
vedere, attraverso essa, le ossa della mia testa. Non vorrei farti preoccupare,
mia cara amica, proprio in questo periodo che per te dovrebbe essere di estrema
gioia, ma è solo con te che voglio confidarmi, con te e con nessun altro.
Ti racconto delle mie paure come
se tu fossi qui, insieme a me. La sera ho paura a chiudere gli occhi per
addormentarmi, ho paura di cadere tra le braccia del sonnambulismo un’altra
volta. Ricordi bene l’ultima volta cosa accadde, vero? Mi hai ritrovata
sull’East Cliff, seminuda, preda dei miei stessi sogni ma che non definirei
tali. Era tutto così reale, avevo voglia di andare lì, ecco tutto, senza
saperne la ragione, perché qualcosa mi impauriva, ma non so cosa.
La sera vorrei averti accanto
perché tu ti prenda cura di me, come hai sempre fatto. In questi giorni, che la
mia malattia sta peggiorando, di notte non sono solo i sogni a preoccuparmi.
Sono sicura di aver sentito un battito d’ali, come di un grosso uccello, fuori
dalla finestra. La scorsa notte invece ho sentito l’ululato di un cane, di
sicuro doveva essere un grosso cane, forse erano due o tre. Non sono più sicura
neanche delle cose che le mie orecchie sentono.
Il dott. Van Helsing è sempre
così gentile con me, proprio qualche giorno fa mi ha portato un mazzo di fiori
bianchi. Quando, però, ne ho sentito l’odore ho capito che si trattava di
comune aglio. All’inizio pensavo fosse uno scherzo di cattivo gusto, invece il
caro dottor Van Helsing mi ha detto che i fiori hanno poteri medicamentosi e
respirarne l’aroma fa parte del sistema di cura. Sarà per questo che ha
cominciato a strofinare i fiori su tutte le tende, sulle coperte, sui mobili.
Mi ha anche preparato una collana di fiori di aglio, devo tenerla durante la
notte. In effetti, da quando ha portato quei fiori, mi sento molto meglio anche
se sono ancora debole e seriamente preoccupata.
I dottori sono preoccupati
principalmente per le mie perdite di sangue, ma non riescono a capire da dove
fuoriesca. Io penso di sapere benissimo dove vada a finire il mio sangue (anche
se, in questi giorni i miei cari Arthur e Jack mi hanno donato il loro): è la
creatura che viene a trovarmi di notte a prenderlo, è come se non avessi le
forze per respingerlo, per allontanarlo da me. Ma forse sono io che non voglio
farlo. Forse sono una sua preda, una preda con la voglia di mantenersi tra la
vita e la morte.
Mia cara Mina, non mi dilungherò
ancora, ti racconterò tutto quando tornerai a trovarmi. Spero che tu e il tuo amato
Jonathan stiate bene, non vedo l’ora di rivedervi e spero anche la mia salute
migliori prima del tuo arrivo.
La tua
Lucy
Che ti vuol sempre tanto bene.
Federico Orlando
Charlotte
«Qual è il miglior libro al mondo, Charlotte?»
« La Bibbia,papà »
« Certo, e subito dopo ?»
« Il Libro della natura»
«Molto bene».

Era una bambina intelligente e volitiva, Charlotte. Da allora la sua mente non ha mai smesso di scrutare la natura, soprattutto quella umana.
Nonostante il rigore del padre, pastore anglicano, e la morte prematura della madre, aveva trascorso un’infanzia felice in quella casa di pietra grigia.
Cinque sorelle e un fratello. Una minuscola stanza dei giochi affollata di soldatini di latta e geroglifici sui muri : il loro mondo segreto.
Poi , il cimitero proprio davanti casa cominciò a divorare pezzi di vita. E l’ombra degli alberi spogli si fece più cupa , allungandosi torva sulle lapidi scolpite di fresco.
Una mano guantata di pizzo nero, sempre la stessa, scostava ogni volta più flebile lo stretto cancelletto che conduceva al camposanto. Maria ed Elisabeth. Poi Emily e Branwell. E infine Anne. Non le restarono che silenzi e amori mancati.
Amava trascorrere ore di solitudine presso una cascata, seduta su un sedile di pietra. Come erica rampicante nella brughiera, la morte e la vita lampeggiavano nella sua mente alternando bagliori violacei e purpurei.
Il cielo plumbeo e carico di pioggia non poteva fermare la sua sete di desolazione. Spettrale, la luce gialla del tramonto disegnava grida di furore sui suoi capelli.
Ovunque portava con sé uno scrittoio portatile e continuava a scrivere. Emergeva dalle sue meditazioni solitarie sempre più esile e fragile. Man mano che la vita si assottigliava in lei, cresceva la sua consapevolezza.
Nel 1848 aveva pubblicato Jane Eyre sotto lo pseudonimo maschile di Currer Bell. Divenne un’eroina, un caso letterario. Chi poteva mai essere quello scrittore capace di dar vita a personaggi così passionali e tormentati? E come poteva dar voce ai desideri di una insignificante istitutrice? Qualcuno già avanzava sospetti, denigrando quella scrittura troppo eccessiva, non controllata. Doveva essere sicuramente di una donna.
Volle gettare la maschera e rivelare la sua identità. Arrivando a un ricevimento in suo onore, accolta dal noto scrittore William Makepeace Thackery, suo mentore, si accomodò su un divano e non disse una parola.
Bruciava dentro di lei la ribellione.
Dal suo sedile di pietra, Charlotte aveva continuato a scrutarsi nella cascata sottostante. La sua complessità prese corpo.
Era lei Jane Eyre. Quella strana ragazza solitaria , fiera e indipendente. Con la sua forza, aveva stracciato definitivamente l’immagine edulcorata delle dame in crinoline a caccia di marito. Nell’Inghilterra proto-vittoriana una donna doveva stare al suo posto e non esprimere i suoi desideri troppo apertamente.
Il panorama letterario inglese era cambiato per sempre. Era nata la prima eroina femminista.
Ma Charlotte, dopo avercela consegnata, si è spenta. Perché Charlotte era anche Bertha Mason, la pazza segregata in una torre, prima moglie di Mr. Rochester.
Come lei, viveva passioni troppo smodate e non le era dato manifestarle. Doveva rientrare nei ranghi e cercare una sistemazione degna di una signora di mezza età.
Dopo avere per lungo tempo rifiutato le sue proposte di matrimonio, alla fine Charlotte convola a nozze col reverendo Nicholss per sedare la bruciante nostalgia di una vita non vissuta.
La passione si spegne definitivamente dopo la sua ultima disperata corsa sotto la pioggia nella molle brughiera di Howarth.
Aveva 39 anni ed era incinta.
Il suo sedile di pietra è rimasto dov’era, coperto dall’erica.
Bea Ary
Bea Ary
Pannychis XI
Pannychis XI, sacerdotessa di Delfi, infagottata nel suo mantello nero, se ne stava sul suo tripode a vaticinare e a fare profezie inverosimili. Trascorreva il suo tempo a sonnecchiare tra i vapori e alla chiusura del santuario andava a rintanarsi nella sua capanna, cucinava il semolino e lo lasciava lì perché puntualmente si addormentava.
Merops pensava che quanto più una Pizia fosse vecchia e scriteriata tanto diventava abile - ancora meglio una Pizia moribonda, infatti Krobyle, la Pizia che aveva preceduto Pannychis, aveva elargito le profezie più assurde proprio sul punto di morte.
Merops pensava che quanto più una Pizia fosse vecchia e scriteriata tanto diventava abile - ancora meglio una Pizia moribonda, infatti Krobyle, la Pizia che aveva preceduto Pannychis, aveva elargito le profezie più assurde proprio sul punto di morte.
Pannychis non voleva assolutamente fare la sua stessa fine, ciò che le interessava era soltanto morire con dignità; era già molto umiliante che in condizioni di lavoro così miserevoli, ancora adesso fosse costretta a profetare: nonostante il santuario dall'esterno si presentasse maestoso, l'interno risultava scialbo, umido e pieno di correnti d'aria, unico vantaggio per Pannychis erano i vapori che fuoriuscivano dalle crepe della roccia e alleviavano i dolori reumatici causati dalle correnti di aria. La Pizia profetava a caso e poiché i Greci erano ingenuamente creduloni, nessuno notava se le sue profezie si avveravano e rimanevano parole vane; Pannychis odiava gli indovini e li riteneva un'idiozia voluta dalla società, per di più era cosciente del fatto che era tutto completamente inventato, compresa lei che veniva spacciata per la sacerdotessa di Apollo pur essendo soltanto una che improvvisava gli oracoli secondo l'umore del momento.
«Giocasta si è impiccata» disse Edipo sottovoce.
«Mi dispiace, condoglianze vivissime» disse la Pizia.
( La morte della Pizia (Das Sterben der Pythia) - Friedrich Dürrenmatt)
Maria Urzi'
Brett

Quando finiamo, mi sento così annientata che anche la stanza sembra cessare d'esistere e anche Mike e anche Jake e anche la fiesta, tori che inseguono uomini, uomini che inseguono me.
Non è carino pensarlo?
Valeria Balistreri
Valeria Balistreri
Maddalena, anzi…Lena e la torta di mele
Vivir con el alma aferrada
a un dulce recuerdo che lloro oltra vez...
Bruna, lunghi capelli neri, sguardo intenso e profondo. La
Maddalena che la storia ci tramanda è una figura controversa: meretrice pentita
e redenta, seguace di Gesù e poi Santa secondo la tradizione cristiana,
addirittura sposa di Cristo, secondo le molto discusse teorie di Dan Brown. Ma chi
era in realtà la Maddalena? Io non saprei spiegarlo.
Perchè la mia Maddalena non è bruna dallo sguardo intenso,
la mia Maddalena, anzi...Lena è minuta, castana e due occhi verdi come i boschi
delle sue montagne. Era davvero speciale Lena, eppure mi sembra che non ci sia una storia che io possa raccontare.
Tutte le parole si confondono e si perdono nella testa. I pensieri saltano uno
sull’altro, le emozioni stringono la gola e tolgono aria ai polmoni.
Il cielo continua ad essere grigio
e la primavera mi sembra troppo lontana. Tutte le barche sono ferme, la
tempesta è ancora in corso.
Credevo di aver, se non superato,
almeno in parte elaborato le sue parole di dolore e allo stesso tempo di forza.
A volte mi scopro a cercare il suo volto tra i tanti nella folla, anche se non
sarebbe possibile oggi, ma non lo sarebbe stato neppure in passato. In città ci
era stata pochissime volte, il matrimonio, la nascita del nipote, qualche altra
speciale occasione.
La sua vita, come la mia, era tra quelle
montagne, dove il cielo è di un azzurro intenso e la neve resiste fin quasi a
primavera.
Ci sono persone che crediamo siano
invincibili e anche lei lo era, così credevo. Invece l’ho vista pian piano
piegarsi sotto un peso troppo grande. Ho visto i suoi occhi di bosco diventare
sempre più chiari ma senza mai smettere di cercarmi. Il suo respiro si è fatto
sempre più lieve fino a spegnersi, e di lei tra milioni di ricordi che
custodisco, mi viene in mente la sua torta di mele. Se io ero con lei, la sua
torta di mele non poteva mancare. Anche quando le sue mani non avevano più la
stessa forza, la sua torta accoglieva ogni mio arrivo.
Nessun pasticciere saprebbe
riprodurre quello spesso sapore, quella stessa dolcezza. Eppure le sue mani
mescolavano insieme ingredienti semplici: 150 gr. di farina, 50 gr. di maizena, 1 bustina di lievito, 125 gr. di burro, 125 gr. di zucchero, 2 cucchiai di latte, 2 cucchiai di
liquore all’amaretto, 3 uova intere, 4 mele.
Lena era come la sua torta di
mele: dolce e con un cuore morbido e profumato.
Lucia La Gatta
Beatrice
Lavo i piatti, raccolgo da terra le tue mutande, cucino ogni santo giorno, porto i bambini a judo e piscina. Faccio la spesa e non mi merito neanche un grazie? Altro che donna angelo, sono una donna sguattera. Fino a tre anni fa mi scrivevi sonetti di lode, canzoni, ballate. Dicevi che non ero una donna bensì un miracolo divino.
E ora? Entri e non saluti, mangi e subito sul divano a guardare Milan - Fiorentina.
Potevo studiare farmacia e non me lo hai permesso. Potevo farmi una cultura ed essere indipendente e dicevi che era una cazzata. Certo secondo te dovrei fare come la moglie di Guinizzelli, stare a casa a fare la brava massaia.
Lo sai che ti dico?! Ora vado a fare pilates.
Giorgina D'Amato
Georgia
«Dicono che le donne non possono essere grandi pittrici. Io non l’ho mai pensato. Io dipingevo e basta.»

Aspettando tue notizie ti bacio lieve.”
Ci
siamo scambiati centinaia di lettere Alfred ed io. Eravamo una
straordinaria coppia newyorchese di successo, ancor prima che decidessimo di
unire le nostre vite e non più solo dal punto di vista familiare. Ma la vita è
così ricca di sorprese. Anche con me lo è stata. Dicono che sia stato questo
mio animo inquieto e sensibile a partorire queste tele così…dirompenti per la
mia epoca. Calle bianche, fiori giganti, segreta intimità di labbra-vagine, di
pistilli-clitoridi in fiamme, così scrivevano i critici, dicevano che non avevano
bisogno di didascalie, arrivavano dritte al segno.
Molti
mi chiamavano “la Signora delle calle”, per Lui ero la sua amata. Lui era ossessionato dal mio corpo, mi fotografava in
continuazione, nuda, vestita di bianco, il seno scoperto. E sempre Lui è stato
il primo a credere in me, a scorgere un’artista in cui erano espresse per la
prima volta esplicitamente le pulsioni più profonde della sessualità femminile.
Ma il nostro è stato un rapporto turbolento. I miei fiori si vendevano
benissimo, ma il mio bisogno di nuove ispirazioni e non solo, mi hanno portata
lontana da Alfred. Dovevo in qualche modo salvarmi da lui. Lui che era stato il
mio pigmalione, rivolgeva la sua seduzione verso altre donne.
Ho
sopportato, ho sofferto, mi sono ammalata, il mio successo era nulla se il suo
sguardo si allungava verso altri orizzonti. E’ sempre così terribile non
sentirsi amate, per questo ho dovuto sfuggire alla mia stessa sorte, a Lui, che
in qualche modo mi aveva creata e che mi stava distruggendo. Ma il nostro
legame d’amore e lavoro non si è mai reciso e nei lunghi periodi di separazione
le nostre lettere annullavano questa assenza. Non eravamo più la pittrice
Georgia O’Keeffe ed il fotografo affermato e gallerista Alfred Stieglitz,
eravamo una donna e un uomo con le loro sofferenze, i loro dolori, i loro
rimpianti…
«È
la fine di una giornata tranquilla. Le tue lettere mi danno un curioso
equilibrio, una specie di controllo cosciente di me stessa che mi piace...”
Lucia La Gatta
8 o 13?

Quelle che vedo in tv?
Quelle che incontro a scuola?
Quelle che incrocio per strada?Sembrano omologate, appena uscite da un centro estetico: capelli piastrati, occhi truccatissimi nascosti dietro mèches lunghe e variopinte, con extension alla Barbie, jeans sottovita con fessura “vedo, non vedo”, ombelico griffato o diamantato. Anche quando parlano, sono molto simili tra loro, se presumono di non essere ascoltate o osservate, sono anche sboccate e volgari pur avendo un contorno labbra impeccabile e ben disegnato.
Da quelle bocche così ben delineate e valorizzate da lipstick costosi, escono mezze frasi, con un vocabolario ridottissimo. A furia di abbreviare tutto, nei ripetitivi sms, di confondere le “ci con le kappa “, il numero delle lettere si riduce assieme alla profondità dei pensieri.
Tempo verbale? Eterno presente, senza più concordanza (per es.“ e dopo che abbiamo?”)
Mi viene naturale chiedere, quando le ascolto, perché hanno una così profonda cura dell’aspetto esteriore (dimenticavo le unghia stregate, dalle mille forme fantasiose per ogni occasione), e una così poca considerazione della propria parte più intima e intellettiva? Intendo dire, perché troppe donne perdono ogni mattina tanto tempo per curare il proprio look e poi non trovano nemmeno un’ora per leggere un giornale, una rivista, un romanzo (traguardo impensabile), una poesia di Garcia Lorca - anche in italiano-, o meglio, due capitoli di storia (quattro sono improponibili), per sapere cosa è potuto succedere a Luigi XVI durante la Rivoluzione Francese?
E’ poi scoppiata davvero? – così una mi ha chiesto una volta in classe…
Fino a quando hai il piacere d’incontrare una sola persona che ti capisce al volo, che esegue senza imposizioni o che completa il suo compito senza sollecitazioni, lo spirito non deve inasprirsi, e la speranza non deve considerarsi vana.
Anzi sono questi piccoli numeri che fanno la differenza. Ecco tutto è minimal: lessico, cervello, attenzione, curiosità.
E non mi si rinfacci la solita storia del saper interessare, incuriosire, la teoria dell’how doing or how being.
Le parole straniere?
Sono venute in soccorso per confondere ancora di più le idee e le persone.
Sai cosa vuol dire moderno? Vuol dire saper usare escort al posto del prosaico accompagnatrice; spread, défault al posto di crisi e fallimento più utilizzati che eliminacoda e bancomat. Ogni neologismo dura il tempo di fare notizia, di proporsi come titolo giornalistico poi ritorna nel buio, nel vuoto.
Video ergo sum solo la televisione è la vera maestra , la nuova donna so e posso tutto solare e propositiva, un po’ ruby o rubesca che spiana la strada.
Quello che più manca alla donna,ma non solo a lei è LA STORIA.
Il senso del cammino ,percorso al femminile, anche della manifestazione del 13 febbraio dell’anno scorso, in maggioranza rosa. E’ partita con un titolo emblematico, profetico quasi, allusivo o semplicemente veritiero: Se non ora, quando?
Quando vogliamo renderci conto di essere altrettanto importanti dei cosiddetti dominatori del mondo, di sesso maschile? Forse solo più indignate, con qualche meno mascherata complicazione emotiva .
Forza donne, non siate solo bambole, fotocopie televisive, per tradizione anche mamme senza convinzione, telecomandate non solo a distanza, asfissiate da una società maschilista e da una cultura troppo al maschile…
Se non ora? ORA!
8 marzo o 13 febbraio….che importa….qui s’en fout…. I don’t give a damn…
Donna Franca
Quando mise il primo piede sullo scalone asimmetrico e curvo del
suo villino fu travolto da Giulia, che gli si buttò con le braccia al collo
rimproverando il padre per l’assenza e per i peli che le pungevano le gote
arrossate dal primo sole di primavera. Arrivò quella mattina da Parigi. Passò
dalla toletta per radersi il volto scuro di siciliano da due generazioni.
L’essenza di zagara riempì l’ampio salone tappezzato da motivi floreali e
intarsi lignei. E le domestiche indaffarate lo ossequiavano ad ogni
andirivieni. Bussò tre volte a colpetti deboli e con ritmo cadenzato. Era il
loro linguaggio segreto. Le labbra di lei si aprirono in un sorriso intrigante
che poteva sembrare malevolo. Si ricompose, schiarì la voce e con fare da
usignolo cantò il suo permesso di ingresso all’ospite usuale. Ignazio aprì la
porta tenendo le mani dietro la schiena. Trovò la moglie seduta al centro del
letto china sulle carte della sua fitta corrispondenza. Aprirono il cerimoniale
del loro ricongiungimento con un casto bacio di guance sfiorate, un antico
ossequioso civettare tra moglie e marito. Porse alla moglie una scatola foderata
di raso blu cobalto e chiuso da un nastro di seta color avorio. Per un attimo
le candide mani di lei si confusero col nastro, tanto il suo incarnato era
d’alabastro. Nascose un sorriso sornione per non dare soddisfazione al suo
uomo. Amavano giocare. Scartò quel mistero con una grazia sacrale, nascondendo
perfettamente ogni ombra di curiosità o eccitazione all’idea di ricevere una
nuova gioia. Stavolta lui la sorprese davvero. Nessuna spilla di Cartier o
abito di Worth era paragonabile alla gloria di quel nuovo regalo. Emise un
gridolino che le spezzò la voce. Sette interminabili metri di perle legate da
un sottilissimo filo. A chiudere quell’enorme circonferenza una rosa in oro bianco.
Amate perle che brillarono ai riflessi del sole mattutino che penetrava dalle vezzose
vetrate della camera in stile moderno. Lei balzò dal letto e strinse suo marito
ringraziandolo con un languido e umido bacio. E gliene promise uno per ogni
perla e perdeva il conto a sgranare quell’interminabile rosario profano. Lei
che era la vergine, degna di giaculatorie. Sette metri di perle attorno a un
collo di colonna. Viso di porcellana, capelli neri, occhi grigi di mare. Tutti col naso all'insù al Massimo Teatro a
guardare il palchetto dov'era lei, fiera
tra le sue perle, dal collo di fiera.
Musa di poeti, scrittori, pittori, cantanti. Regine che si inchinavano al suo
passare e sguardi d’amore dalla sua gente. Tutti la amavano e lei fu
dispendiosa e ricambiò l’amore che gratuitamente riceveva. Poggiata su
un fianco guardava lo sorte amica. Era prima che tutto finisse quando l’occhio di pittore
impressionava su una tela i tratti di grazia e sensualità. Non pensava, in quel momento, che le sue perle sarebbero diventate
cenere. E divenne cenere la sua primogenita e anche l’unico figlio maschio che
riuscì a concepire. E cadde un vessillo. La guerra e il dolore, la nuova
economia e i governi contrari, fu uno sfaldamento lento, continuo, inesorabile,
cadenzato da lutti e pene per i tradimenti del marito.
La gloria e lo splendore che circondarono la sua vita non seppe mai da dove arrivassero. Una storia che sembra leggenda. Sa di mare e di mandorla, di zagara e di vino bianco. Grandiosa come una Norma, feroce come una mattanza. In un’isola che oramai non conserva nemmeno più il ricordo della sua età dell’oro. Quando dal porto della sua capitale partiva la flotta più copiosa di tutto il Mediterraneo. Quando l’invenzione di un nuovo vino, che era da meditazione e mai pensato fino ad allora, aveva cambiato i gusti e le abitudini dell’intera Europa. Quando una donna, che di questa terra era regina, era issata a faro ed era paradigma di stile, eleganza ed emancipazione culturale.
Franca Florio toccò con le sue mani la miseria dopo essere stata una delle donne più ricche d’Europa. Vendette e furono confiscati gioielli, abiti, palazzi. Passò gli ultimi anni della sua vita con le mani trafficanti sui tavoli verdi dei casinò, tenendo da parte gli spiccioli per le sue amate sigarette. Trasferitasi prima Roma e poi, passata anche le seconda guerra, a Firenze morì sul letto di una pensione. Non rimpianse mai il suo passato e raccontava alle nipoti i fasti di un tempo come se stesse raccontando la bellissima storia di una principessa delle favole. A Palermo tornò da morta, nel 1950.
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