È il 25 aprile del 1911.
Un uomo esce da casa di buon mattino, ha un oggetto in tasca. Lascia due lettere su un tavolo. Si dirige con passo pesante e svogliato verso un boschetto, ha un’aria cogitabonda. Chiude le dita attorno all’oggetto levigato nella sua tasca, quasi cercando sicurezza in quel contatto. Forse è più una speranza, un anelare una tranquillità che fino allora non aveva mai avuto e che anche per il futuro rimaneva incerta: chi può dire che cosa c’è dopo il futuro? Si affaccia alla mente il ricordo del padre, Luigi, suicida perché si credeva afflitto da una malattia incurabile. Il pugno si contrae attorno all'oggetto levigato nella tasca. Si ferma, si appoggia al tronco di un albero e prende fiato. Il pensiero va alla moglie, Ida, che per lui ha lasciato il teatro e che adesso è un fagotto urlante rinchiuso in un manicomio. Pensa ai debiti contratti per cercare di curarla, alle ore di lavoro massacrante nelle quali lo sostenevano solo le cento sigarette fumate ogni giorno e le bottiglie di marsala, oltre alla disperazione. Piange. Rivede la scena di due anni prima, quel giorno nel quale si lanciò su una spada, ferendosi invano. Spalanca la bocca in un muto grido di dolore, estrae dalla tasca la mano che regge l’oggetto. Lo maneggia, lo osserva come incantato, ne fa ruotare il manico esponendo la lama. La alza raccogliendo un barbaglio di sole, e la cala. Di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Un uomo esce da casa di buon mattino, ha un oggetto in tasca. Lascia due lettere su un tavolo. Si dirige con passo pesante e svogliato verso un boschetto, ha un’aria cogitabonda. Chiude le dita attorno all’oggetto levigato nella sua tasca, quasi cercando sicurezza in quel contatto. Forse è più una speranza, un anelare una tranquillità che fino allora non aveva mai avuto e che anche per il futuro rimaneva incerta: chi può dire che cosa c’è dopo il futuro? Si affaccia alla mente il ricordo del padre, Luigi, suicida perché si credeva afflitto da una malattia incurabile. Il pugno si contrae attorno all'oggetto levigato nella tasca. Si ferma, si appoggia al tronco di un albero e prende fiato. Il pensiero va alla moglie, Ida, che per lui ha lasciato il teatro e che adesso è un fagotto urlante rinchiuso in un manicomio. Pensa ai debiti contratti per cercare di curarla, alle ore di lavoro massacrante nelle quali lo sostenevano solo le cento sigarette fumate ogni giorno e le bottiglie di marsala, oltre alla disperazione. Piange. Rivede la scena di due anni prima, quel giorno nel quale si lanciò su una spada, ferendosi invano. Spalanca la bocca in un muto grido di dolore, estrae dalla tasca la mano che regge l’oggetto. Lo maneggia, lo osserva come incantato, ne fa ruotare il manico esponendo la lama. La alza raccogliendo un barbaglio di sole, e la cala. Di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Una giovane lavandaia troverà per caso il corpo in un bosco mentre andava a far legna; ha la gola e il ventre squarciati, e in mano stringe ancora il rasoio. La sciagura perseguiterà anche il resto della famiglia: sua figlia Fatima muore tisica nel 1914, nel 1922 la moglie Ida morirà nel manicomio dov’era ricoverata; nel 1931 il figlio Romero morirà suicida e nel 1936 muore il figlio Nadir, per le ferite un incidente di moto; per finire anche Omar, l’ultimo rimasto, si uccise buttandosi dal secondo piano del suo alloggio nel 1963.
Accortisi della scomparsa del padre, i figli aprono le lettere che aveva lasciato sul suo tavolo; la prima è indirizzata a loro:
Miei cari figli,
Sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie.
Io spero che i milioni dei miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600 lire che incasserete dalla Signora Nusshaumer. Vi accludo qui il suo indirizzo.
Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato.
Mantenetevi buoni ed onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre.
Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre
Emilio Salgari.
Vado a morire nella Valle di S. Martino, presso il luogo ove quando abitavamo in Via Guastalla andavamo a fare colazione.
Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a cogliere i fiori.
La seconda missiva è scarna e trasuda rancore:
Torino, Madonna del Pilone 22/4/1911
Ai miei editori
A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali.
Vi saluto spezzando la penna.
Emilio Salgari
Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgàri nasce a Tomenighe di Sotto, frazione del comune di Negrar, nel cuore della Valpolicella alle porte di Verona, il giorno 21 agosto 1862. L’uomo che ha fatto e fa sognare milioni di persone da diverse generazioni con i suoi racconti di viaggi e scorrerie è paradossalmente cresciuto tra le colline dell’entroterra veneto, e il suo solo viaggio per mare fu quando navigò lungo le coste dell’Adriatico per tre mesi a bordo della nave Italia Una, mentre non gli fu mai possibile viaggiare nei lontani paesi nei quali ambientò la maggior parte dei suoi romanzi, e che lui conobbe solo tramite le letture dei libri. Nel 1878 si iscrisse al Regio Istituto Tecnico e Nautico “Paolo Sarpi” di Venezia, ma nonostante fosse riuscito a portare a termine gli studi non arrivò mai a diventare capitano di marina, come sarebbe stato suo desiderio, tuttavia per il resto della vita si fregiò tranquillamente del titolo, in maniera sicuramente impropria.
Del tutto suo in modo assolutamente incontestabile era il potere di viaggiare con lo spirito, con la fantasia e con la ricerca incessante nei libri che usava per documentarsi scrivendo i propri romanzi, ma fu anche un precursore della fantascienza con opere come “Alla conquista della luna”, o “Le meraviglie del 2000”. Fu la necessità di fuga dalla quotidianità che spinse Salgàri ad ambientare i suoi romanzi in terre distanti, o forse solo la voglia di appagare il desiderio di viaggiare frustrato? Lo ignoriamo, ciò che sappiamo è di dovere a una straordinaria immaginazione la produzione letteraria che controbilancia una vita che fu tutt’altro che avventurosa, ma che inversamente non fu per nulla tranquilla. I suoi lavori venivano pubblicati a puntate, spesso sui giornali, com’era costume all’epoca. Il primo fu un racconto in quattro puntate intitolato “I selvaggi della Papuasia”; poi il romanzo “La tigre della Malesia”, che pubblicato a puntate sul giornale veronese La nuova Arena, ma dal quale Emilio non cavò praticamente il becco di un quattrino. Nell’anno seguente, 1884, pubblica a puntate il suo primo romanzo, “La favorita del Mahdi”, scritto però qualche anno prima. Dal 1892 al 1898 Emilio è sotto contratto con l’editore Speirani, per il quale pubblica una trentina di opere; dal 1896 inizia un contratto anche con l’editore Antonio Donath di Genova, ed il primo libro pubblicato è “I pirati della Malesia”. Dal 1906 inizia il rapporto anche con l’editore Bemporad.
Il ritmo impostogli dagli editori era a dir poco da catena di montaggio: era obbligato a scrivere tre libri ogni anno, e per rispettare questi ritmi era necessario scrivere tre pagine al giorno; inoltre dirigeva anche un periodico di viaggi. Scrisse a un amico:
“La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere.”
MM
destabilizzante questo pezzo che informa, soddisfa l'occhio, spinge alla riflessione.. Melon è poliedrico, difficile dire quale la sua faccia migliore
RispondiEliminagd
Ne ho molte, ma sono tutte uguali ;)
EliminaOhila, devo essere sincero, non conoscevo Salgari se non per la paternità di Sandokan, quindi ero totalmente all'oscuro di questa vicenda. Il tuo pezzo all'inizio è inquietante, leggendolo ho pensato: bel modo di uccidersi, eh? Azz, ci vuole un bel coraggio...
RispondiEliminaSalgari era un mezzo genio, un mezzo profeta: nei suoi romanzi di fantascienza (forse adesso si definirebbero steampunk che fa più chic, o comunque suoi precursori) ha descitto quasi esattamente la plastica, salvo che le attribuiva un aspetto metallico
EliminaMelon questo post e' cosi' bello che meriterebbe 300 commenti belli come il sole! Solo che la gente leggendolo rimane intimidita e non sa che scrivere per non essere banale.
RispondiEliminaMa sto pirla non poteva spararsi o bere del paraflu??
Mi sono sempre cheiso che cosa giri nel cervello di persone che scelgono di uccidersi in maniere così dolorose, e che razza di determinazione disumana devono avere per andare avanti fino alla fine
Eliminagià, si rischia la banalità nel commentarlo. però minimo i complimenti sì. Mauro dopo tanti anni riesce ancora a stupirmi
RispondiEliminaMeis
Se c'è un argomento su cui non farò mai dell'ironia è la disperazione di un uomo che decide di togliersi la vita.
RispondiEliminaA parte Madama Butterfly, quella è proprio una sfigata credulona e madre degenere, che se non faceva harakiri, l'ammazzerei io ogni volta che abbraccia il figlio e lo dà a quel bastardo di Pinkerton...
Ma lei non è vera. Salgari invece si.
Più di un dubbio sul pezzo... non mi convince "l'aria cogitabonda" e qualche altra espressione qua e là. La parte finale prima delle lettere, sembra scritta da Salgari nel periodo di maggior affanno: senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere.
Ma infine, grazie MM, hai scritto di qualcosa che ignoravo, te ne rendo merito.
Se vuoi ammazzare la Butterfly mettiti in coda, oppure posso lasciartela se mi prometti di farle tanto male, mentre io mi occcupo di quell'altro deficiente di Alfredo Germont
EliminaRimango molto colpita dalla descrizione del suicidio. Mi sono chiesta che tipo di disperazione si debba raggiungere per avere la forza di togliersi la vita... ( non voglio trovare risposte alla mia perplessità ). Il tuo brano è interessante e porta a riflettere, ad interrogarsi sullo stato delle "ultime cose". Complimenti!
RispondiEliminaNina
sto riflettendo anch'io in questi giorni sul concetto proprio squisitamente materiale delle "ultime cose"...quelle sul comodino per intenderci al momento di non esserci più: un paio di occhiali, un libro non finito, una collanina...allegria insomma eh eh eh
EliminaMeis
Tocchiamoci vaaaa!!
EliminaLa cosa curiosa è che fino da bambino ho sempre accarezzato l'idea del suicidio, la morte non mi ha mai fatto paura; forse la vedo un po' come Voltaire, che diceva che è una vecchia comare che tiene bottega aperta. Tuttavia, nonostante dei periodi veramente infami che mi è capitato di attraversare negli anni, l'ultimo neanche tanto lontano, l'idea di uccidermi mi sembra sempre una via di fuga che non ho voglia di usare, un po' come il freno di emergenza nei treni: hai visto un sacco di film in cui lo tirano tanto per fare, lo vedi e ti chiedi se sarebbe divertente farlo, poi pensi che hai di meglio da fare e non ne val la pena
EliminaLe ultime cose hano un che di poetico come solo la morte letteraria ha.
RispondiEliminaLa morte vera è brutta, disordinata, niente è elegante, bello come una frase ben scritta. E' squallida, talvolta raccapricciante. Dunque a parte la morte di Salgari e come la pensò e perchè ci arrivò...Il racconto di Mauro mi piace. Ha in sè la cronaca che è dovuta, Ma ha anche in sè un raccontare di un uomo che immginando ci ha regalato personaggi di fantasia pura, lontani dalle difficoltà della sua vita reale. e dunque...c'è mlto lavoro in questo scritto, proprio come nello scrittore di cui ci parla
La morte non è una tragedia, Clotilde; può essere brutta o bella, facile o no, ma dipende dal nostro atteggiamento verso la vita e da quanto siamo attaccati al mondo. Più lotteremo per restare anche se il nostro tempo sarà finito, e più fatica faremo nel trapasso; la morte è solo un cambiamento, e come tutti i cambiamenti più lo blocchi e lo ritardi e più lui si fa vivo con maggiore violenza fino a quando non ti si impone brutalmente.
RispondiEliminaLa tua idea del disordine mi fa ricordare un episodio che lessi anni fa in un libro, si parlava del suicidio di un'attricetta americana degli anno '30 o via di lì, tale Lupe Velez, che era la bomba sexy del Messico in quegli anni. Rovinata, disfatta e distrutta, aveva organizzato il proprio suicidio in maniera scenografica: cena lussuosa con amici, fiori ovunque, un abito splendido. Poi, prima di andare a dormire ingoiò una carriolata di barbiturici nell'intento di essere ritrovata eterea sul suo catafalco di morte, con lenzuola di seta e calle ovunque. Peccato che i barbiturici abbiano fatto a pugni con le damigiane di whisky che la Velez aveva tranguigiato a cena, e la poverella ebbe solo il tempo di arrivare ad abbracciare il water. La mattina dopo la trovarono morta mezzo soffocata nel suo vomito
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