Intanto si rifece vivo lo squallore fatto persona, il trentenne emaciato, alto e magro come un palo in disuso, patetiche stempiature, occhiali spessi e sporchi, acne rivoltante. Si rifece vivo, tutto in visibilio dopo avere baciato entrambe le guance, affondando estaticamente le labbra umide sulle guance profumate e perfettamente rasate dell’Onorevole. “Sei venuto qua solo per mangiare?” gli chiese, accostandosi con tono ammiccante. Gli occhi gli si erano fatti stretti come quelli di un topino. “E per cosa, sennò?” gli rispose, Marco, che tra l’altro era riuscito ad afferrare a malapena un paio di olivette. Lo snobismo del cazzo, da che mondo è mondo, lascia morti di fame. “Dai, non fare quello che non capisce. Sei venuto per parlare con Lui, non è vero?”. E partì il duello. “Sono stato invitato” ribattè allora Marco, con tono il più neutro possibile. “Invitato? – lui cominciò ad innervosirsi – Cioè, come si invitano i parenti o gli amici ad una festa di compleanno?”. “Qualcosa del genere”. “Ok, ma non ci devi parlare, con Lui?”. La sua voce si faceva progressivamente più stridula, si contorceva, si seccava, come un fiore che veniva crudelmente torturato da un raggio laser. Intanto Marco aveva assunto il suo sguardo più neutro possibile, il tono più vago e ipocrita, controllo siderale, la narice arricciata innaturalmente. “Scusa, non capisco, cosa dovrei dirgli, a Lui?”. Era sadismo puro, Marco lo conosceva da tempo. Era stato un ragazzo interessante, a volte perfino bello. Aveva avuto la testa piena di sogni, una volta. Studiava, leggeva, si informava, voleva viaggiare, aprirsi, conoscere il mondo. Aveva avuto negli occhi una luce speciale, una volta. Ma era invecchiato anzitempo, adesso era sfatto, svuotato, straziato dai suoi trent’anni, dalla sua disoccupazione e da chissàchealtro. “Cosa dovrei dirgli, a lui? – ripetè Marco, gelido – Io neanche volevo venirci qui, stasera. Ma vabbè, mi sono detto, mangio un po’ a scrocco e me ne vado subito. Ti pare, stasera ho altre cose da fare. Come me ne fotte a me di andare appresso a sti cazzo di politicanti”. Si zittì, lesse un sms appena arrivato. Sorrise.
Il suo interlocutore era arrossito violentemente. Sembrava ancora più sfatto, svuotato, straziato dai suoi trent’anni, dalla sua disoccupazione e da chissàchealtro. Sembrava ancora di più Invecchiato Anzitempo. In lui la maturità, l’uscita dall’adolescenza, aveva assunto le forme di una rigidezza inquietante, un cadaverico rigor mortis, quasi che – irrimediabilmente non più teen-agers – avesse smesso inesorabilmente di vivere e palpitare. Trent’anni, e pareva una statua di cera, una mummia. Adesso, passato il rossore, sembrava mummia, statua di cera, perfino nel colorito.
“Tu perché sei venuto? – continuò allora Marco – Solo per mangiare?”. Il duello non era ad armi pari. Marco lo sapeva, godendo della propria superiorità. “No…io..io” balbettò il poveretto, che adesso, come preso da un lampo di lucidità, o da una tenebra di offuscamento, non voleva ammettere con se stesso quanto si vergognasse a dire le cose come stavano. Non voleva ammettere con se stesso quanto si vergognasse, quanto gli riuscisse difficile raccontare che, cazzo, ormai erano mesi e mesi e mesi che ci lavorava alacremente, che si stempiava mattino e sera, che consumava suole di scarpe, batterie del cellulare, un sacco di tempo perso, un sacco di energie buttate a cercarsi quella cazzo di raccomandazione. Che bussare alle porte era ormai diventato il suo mantra quotidiano, che ormai era un esperto nell’assumere il tono giusto, la giusta servilità, la giusta affettazione di inferiorità umana, morale e sociale, che bisognano per ingraziarsi i politicanti e, tessendo tessendo centinaia di tele, cercare in qualche modo di far qualcosa, qualsiasi cosa per farsi iniziare alla strada del Sacro Posto Fisso che lui sapeva non esisteva più, che era un mito ormai passato, che sono speranze vane, ali spezzati ancor prima di volare, ma diamine, non ci poteva fare niente, passava le giornate a intrecciare contatti frustranti, a fare anticamere trasudanti bile verde, ad appuntarsi numeri di telefono, a chiedere chiedere chiedere, a ringraziare a ringraziare ringraziare, senza che nemmeno gli venisse più il voltastomaco.
Gli riusciva difficilissimo, adesso, impossibile da digerire, riuscire ad ammettere con se stesso quanto si vergognasse a dire, a dire a quel testa di cazzo supponente di Marco Fantesca, che tutto quello, tutto quell’ambaradan in cui impiegava tutte le sue energie da mesi e mesi e mesi, che tutto quello era ormai l’unico modo che riusciva ad immaginare per riuscire a continuare a guardare in qualche modo in faccia sua madre.
Intanto Marco lo fissava imperturbabile, mentre quello taceva, intimamente curioso di capire come mai quel trentenne lì, che una volta faceva sì tanti discorsi idealistici, ma che comunque era anche lui ormai ben cresciuto e smaliziato, potesse avvampare di imbarazzo per una cosa così stupida. “Senti – sbottò infine – io mi sono laureato e poi ho provato nonsoquanti concorsi, sostenuto nonsoquanti colloqui, e niente. Ho fatto sempre lavori del cazzo, sono sempre stato pagato un cazzo. Sono affogato nel puzzo di una friggitoria, ho pulito lo schifo che la gente lascia negli alberghi, ho proposto mille minchiate inutili a gente che mi mandava regolarmente a fanculo. Ora guarda qui, sono tutto stempiato, presto sarò completamente calvo, e ancora tutti mi trattano come un ragazzino che deve far gavetta. Io non ce la faccio più”. Marco lo guardò, senza espressione. Controllò il cellulare, nessun nuovo messaggio. “Però – continuò – questa è la prima volta che lo faccio, perché ormai mi sento quasi come un disperato. Io mi sento una merda, Marco, ma non so cos’altro fare. Pensala come vuoi, pensa che sono un ingenuo, un bambino, uno sciocco sognatore, ma a me sta cosa del chiedere favori a quei cosiddetti pezzi grossi che non valgono niente, insomma, questo dover leccare il culo a questa gentaglia che ha rovinato un paese e continua imperterrita a comandare, a me sta cosa fa schifo”. Marco decise di affilare i coltelli di quel gioco crudele. Silenzio. “E quindi ora si – concluse dunque il tizio, ormai senza più difese – Ora si, mi cerco la raccomandazione. E fanculo a tutti i bei discorsi e gli ideali e le belle speranze. E non mi guardare così”.
Gli riusciva difficilissimo, adesso, impossibile da digerire, riuscire ad ammettere con se stesso quanto si vergognasse a dire, a dire a quel testa di cazzo supponente di Marco Fantesca, che tutto quello, tutto quell’ambaradan in cui impiegava tutte le sue energie da mesi e mesi e mesi, che tutto quello era ormai l’unico modo che riusciva ad immaginare per riuscire a continuare a guardare in qualche modo in faccia sua madre.
Intanto Marco lo fissava imperturbabile, mentre quello taceva, intimamente curioso di capire come mai quel trentenne lì, che una volta faceva sì tanti discorsi idealistici, ma che comunque era anche lui ormai ben cresciuto e smaliziato, potesse avvampare di imbarazzo per una cosa così stupida. “Senti – sbottò infine – io mi sono laureato e poi ho provato nonsoquanti concorsi, sostenuto nonsoquanti colloqui, e niente. Ho fatto sempre lavori del cazzo, sono sempre stato pagato un cazzo. Sono affogato nel puzzo di una friggitoria, ho pulito lo schifo che la gente lascia negli alberghi, ho proposto mille minchiate inutili a gente che mi mandava regolarmente a fanculo. Ora guarda qui, sono tutto stempiato, presto sarò completamente calvo, e ancora tutti mi trattano come un ragazzino che deve far gavetta. Io non ce la faccio più”. Marco lo guardò, senza espressione. Controllò il cellulare, nessun nuovo messaggio. “Però – continuò – questa è la prima volta che lo faccio, perché ormai mi sento quasi come un disperato. Io mi sento una merda, Marco, ma non so cos’altro fare. Pensala come vuoi, pensa che sono un ingenuo, un bambino, uno sciocco sognatore, ma a me sta cosa del chiedere favori a quei cosiddetti pezzi grossi che non valgono niente, insomma, questo dover leccare il culo a questa gentaglia che ha rovinato un paese e continua imperterrita a comandare, a me sta cosa fa schifo”. Marco decise di affilare i coltelli di quel gioco crudele. Silenzio. “E quindi ora si – concluse dunque il tizio, ormai senza più difese – Ora si, mi cerco la raccomandazione. E fanculo a tutti i bei discorsi e gli ideali e le belle speranze. E non mi guardare così”.
Marco sbuffò, gli mise una mano sulla spalla, fece la parte dell’annoiato. “Senti – disse – a me non me ne frega niente. Perché ti stai giustificando con me? Ma fai quello che vuoi! Io me ne stavo giusto andando”. Il tizio sembrò vacillare. Marco gli fece ciaociao con la mano, inoltrandosi verso l’uscita del locale. Controllò il cellulare. Lesse il nuovo messaggio. Sorrise. Se ne andò. Non aveva neanche salutato l’Onorevole mezzo cugino suo. Nessuno quella sera gli avrebbe fatto un discorsetto di quelli giusti.
mi piace, anche più delle prime due parti. qualche sbavatura ce la ravvedo nello stare sopra le righe di certi dettagli splatter o di certi "cazzo" sparsi per dare senso di rabbia.
RispondiEliminail pezzo però è forte, di quelli che meriterebbero una pagina con in copertina il logo di una grande casa editrice. una sgrezzata e sarebbe perfetto.
gd
è...faticoso...volutamente faticoso e doloroso....insomma, i periodi così contorti e lunghi non sono un caso....ho cercato di rendere la frustrazione anche col ritmo delle parole...ma il gioco si era fatto troppo difficile...e secondo me ne è uscita una cosa troppo umorale e poco controllata...
RispondiEliminaun dialogo che poi dialogo non è, un parlare troppo per "discorsi generali" per un brano, credo, troppo poco visivo e, come si dice, poco "drammatizzato".
Probabilmente il tema mi toccava troppo da vicino, e non sono riuscito a non farmi coinvolgere.
sono i periodi lunghi la cifra della narrazione, ti penalizzano alcune cose che tu definisci umorali, per esempio:
RispondiEliminaNon voleva ammettere con se stesso quanto si vergognasse, quanto gli riuscisse difficile raccontare che, cazzo, ormai erano mesi e mesi e mesi che ci lavorava alacremente, che si stempiava mattino e sera, che consumava suole di scarpe, batterie del cellulare, un sacco di tempo perso, un sacco di energie buttate a cercarsi quella cazzo di raccomandazione.
In questa frase c'è un bel crescendo che però si smoscia nel "cazzo di raccomandazione"... dovresti risolvere debolezze di questo tipo
gd
Alla terza puntata passo alle critiche spietate, che non riguardano solo questa parte ma le scrivo ora perché ho capito solo adesso che alcune cose non mi piacciono.
RispondiEliminaLo squallore fatto persona: "fatto persona" mi sembra una formula un po' abusata...è meglio farlo capire da tutto il resto, ma tu già lo fai capire abbastanza quanto l'individuo sia squallido, quindi l'epiteto mi sembra superfluo. Anche perché il resto della descrizione mi pare veramente efficace e ben scritta.
Sempre parlando di questo personaggio, descrivi perfettamente il fatto che sia "invecchiato anzitempo, adesso era sfatto, svuotato, straziato dai suoi trent’anni, dalla sua disoccupazione e da chissàchealtro", e allora perché ripetere ancora che ha trent'anni subito dopo?
Credo che la necessità di dare un epiteto stia nel fatto che l'hai fatto un po' con tutti i personaggi, però sì, adesso mi rendo conto che è un po' giudicatorio e può stonare.
"Lo snobismo del cazzo, da che mondo è mondo, lascia morti di fame", anche questo, molto giudicante.
Il pezzo che ti citato GD mi è piaciuto moltissimo ma anch'io ho pensato che i due "cazzo" rovinassero tutto. Le parolacce stanno molto meglio nel discorso diretto successivo, che è molto efficace.
C'è un "più neutro possibile" un po' troppo ripetuto.
Il fatto che tu abbia fatto sembrare il tuo protagonista così antipatico mi pare molto interessante! Di solito si tende ad identificarsi nei protagonisti, come confermerà GD.
Aspetto la prossima puntata!
Gli epiteti mi piacciono molto, tipo "Achille piè veloce", creano un qualcosa di formulare, di fumettistico, che bene ci sta in un brano molto...come dire...distorto e soggettivo, quindi caricaturale, come questo.
EliminaPerò gli epiteti sono difficilissimi da usare senza rovinare lo scrivere, perchè hai ragione: il problema di tutti questi "giudizi" a priori è che così viene meno la drammatizzazione, ovvero l'emergere del carattere del personaggio attraverso le sue azioni.
Se si scrive tutto di un personaggio prima di vederlo "in scena", ci si precludono un sacco di effetti possibili.
(Bello sarebbe invece, un narratore che "giudica" un personaggio in un modo, mentre poi dalle azioni risulta l'opposto. Un narratore inaffidabile, che il lettore deve combattere per continuare a leggere).
I "cazzo", si, sono rozzi e grossolani come i punti esclamativi. Che bisogno c'è di marcare così l'esclamazione, o l'incazzatura, se si può farlo col semplice tono, ritmo, contenuto, della narrazione?
Come tutte le cose rozze e grossolane, quindi, funzionano a volte, mentre nella maggior parte delle volte non funzionano.
Grazie di cuore per le critiche, comunque. Non esiste niente di più utile.
PS - L'ultima puntata è il papocchio finale :)