Racconto
pubblicato nell’antologia “Nave senza rotta in un mare di sogni”, edito da Del
Bucchia Editore, da un’iniziativa di Pizza&Letteratura.
La cornice narrativa è quella di una nave da crociera e successivo
naufragio.
La nave lentamente si avvicina alla costa.
Lentamente, inesorabilmente, va per salutare la terraferma.
Ma sarà un saluto troppo focoso,come un bacio insopportabilmente violento,
Lentamente, inesorabilmente, va per salutare la terraferma.
Ma sarà un saluto troppo focoso,come un bacio insopportabilmente violento,
un lacerarsi di labbra,
uno sbattere di denti contro denti.
I
Aria piena di sapori forti, voci concitate e un via vai
frenetico, incantato. Camerieri, sguatteri, cuochi e aiuto cuochi che corrono,
vanno e vengono. Siamo nel bel mezzo del servizio. Lo chef urla ordini, manco
fosse un generale. L’unico che ha i piedi ben piantati a terra è Guido, che
butta anima e sudore nel lavorare di polsi e di braccia, nel grattare frenetico
quei piatti, quelle pentole, quel ferro e quella ceramica unti di sudiciume da
ristorante. Martina gli passa accanto, un fulmine. Guido per un attimo freme,
le si accartoccia dietro, poi la sbircia di riflesso nello specchio lurido che
campeggia in cucina, mentre lei entra in scena nella grande sala da pranzo
della nave.
Schiena dritta, portamento
elegante, i capelli crespi raccolti in una crocchia, il vassoio fumante
nell’incavo di un braccio, la mano che rilascia abilmente sul piatto la portata
– quaglie in agrodolce – mentre il grasso omone si lecca i baffi, seduto sul
suo trono, la fronte che gli sgocciola del sudore della digestione. Martina arriccia
il naso, sudore misto a dopobarba, un fiotto disgustoso nel grande salone che
odora di pulito e roba buona da mangiare. Poi di nuovo via in cucina, prende un
altro vassoio dal carrello et voilà, ancora a servire
abilmente – questa volta il contorno: spinaci – al tavolo dell’omone panciuto,
che si strafoga, rosso in faccia, quasi in apnea, continuando a sgocciolare. E
sua moglie che spizzica compiaciuta i suoi grissini. Siamo
in crociera, Vittorio, siamo in crociera!
“Arrosto al tavolo 23”. “Acqua frizzante al tavolo 37”.
“Chardonnay al tavolo 7”. Via, via, sveglissima, nessun segno di fatica. Sempre
sorridente con i clienti. Sempre sorridente con tutti. Martina alla mano,
dolce, gentile. Perché Guido con lei si accartoccia? Perché con Francesca, per
esempio, con Francesca cameriera piccola e carina, questo non succede? Gli
passa accanto in questo momento, Francesca. Gli passa accanto e Guido le
afferra un braccio e le picchia dolcemente la testa con le nocche. Lei prende
la rincorsa e gli piazza un pugno in mezzo alla schiena. “Che scemo che sei!”.
Lui fa la mossa di toccarla ancora con le mani unte di grasso e lei scappa via
ridendo. Lui gode ancora per un attimo quel suo culetto tondo, quella sua
schiena snella, e poi di nuovo giù a capofitto nel lavoro, ora alle prese con
quel pentolone enorme, luccicante di sporco, che sembra quasi sfidarlo. Ci si
infila con tutto il torace finchè non si vede più la testa. Gratta la roba
appiccicata agli angoli, sente i muscoli dell’avambraccio pulsare, quelli della
schiena tirare. Poi alza la testa, e c’è di nuovo Martina che gli passa
accanto, veloce e sfuggente come un coniglio. Lei però stavolta si ferma un
istante, lo guarda e gli sorride – deve essere proprio buffo, così, con la
testa dentro il pentolone. Lui accenna un sorriso ma poi distoglie gli occhi.
Il sorriso gli esce male, accartocciato. Lo chef urla: “Tavolo 14!”. Lei vola
via in sala, su un braccio l’ennesimo vassoio. Lui riesce a dare un’ultima
occhiata allo specchio, scrutando ancora per un attimo quella sua camminata
aggraziata, quell’ancheggiare sinuoso, sottile e sensuale.
Il tavolo 14 è lungo lungo. Le famiglie cominciano ad allentarsi
le cinture, a sbottonarsi i panciotti, a togliersi le cravatte. Facce
rosse e sazie, discorsi rilassati. È il momento del dessert. Martina
distribuisce le fettine di torta gialla – sarà crema pasticcera – ma c’è uno
strano tremore sottopelle che la agita. Potrebbe dirlo con certezza, Guido il
lavapiatti non usa nessun profumo. Nessuna lozione, dopobarba, acqua di colonia,
deodorante. Niente di niente. Eppure profuma lo stesso, lo circonda un afrore
strano che lo avvolge come un’aura. Lo strano tremore sottopelle non accenna a
diminuire.
Guido non usa nessun profumo ma profuma lo stesso, come Lui,
l’Altro, che allo stesso modo profumava ma non usava nessun profumo, che allo
stesso modo lo circondava quell’afrore strano che allo stesso modo lo avvolgeva
come un’aura. Lui che “Tesoro mio, chi si profuma troppo si nasconde, si
vergogna di se stesso!”. E lei che diceva: “Sì, quanto hai ragione amore mio”,
e lo abbracciava, lo stringeva forte e si accoccolava nel suo placido focolare.
E lei era felice così,
accoccolata nel focolare, con Lui, in Lui.
Lui le diceva vieni da Me, e lei andava da Lui.
Lui le diceva abbracciami, stringimi forte, e lei Lo abbracciava, Lo stringeva
forte.
Lui le diceva fai l’amore con Me, e lei faceva l’amore con Lui.
Lui le diceva vattene che ho da fare, e lei se ne andava, perché Lui aveva da
fare.
II
Chino sulle sue pentole,
Guido pensa che è ingiusto. Ingiusto che la cosa più bella della nave passi le
sue giornate a servire ai tavoli. Ingiusto e assurdo, poi, che ogni sera,
quando finisce il servizio, Martina insista che deve restare in cucina per le
pulizie finali, deve sporcarsi, deve sfinirsi nei lavori più umili. Nessuno
riesce a fermarla, nemmeno lo chef che ogni volta arriva e le ordina di
andarsene, perché il suo turno è finito. Ma lei se ne frega. E va a
infilarsi in quello sgabuzzino dove ci sono i piatti nuovi ammonticchiati.
Piatti su piatti, un armadio pieno. Entra lì cameriera di classe e ne esce
sguattera, lavapiatti, donna delle pulizie. Si toglie la camicia e si infila
una maglietta bianca fatta apposta per sudarci dentro. Poi gli si mette accanto
e insiste che deve dargli una mano.“Fammi un po’ di spazio, fammi un po’ di
spazio”. “Via che poi mi licenziano!”. Lei lo fissa con quegli enormi occhi
neri, interdetta. Anche Guido resta interdetto. Perché lo fa? Perché
vuole stancarsi così? Cos’è quella richiesta di aiuto in fondo al suo sguardo?
Cosa sono quegli improvvisi lampi di spavento dentro i suoi occhi? Perché Guido
non la prende, la bacia e le dice tutta la verità? Che a tutto c’è un limite.
Che la cosa più bella della nave non può, cazzo, non può insozzarsi così.
Ginocchia a terra, come a espiare una pena, Martina si mette a
lucidare piastrelle. Non ce n’è nessun bisogno. Gli sguatteri la guardano come
fosse una pazza. Borbottano tra loro, passandosi pezzuole, scope e secchi, ma
nessuno ha il coraggio di dirle niente. Lo chef, rassegnato, la ignora. Intanto
torna il tremore sotterraneo, forse perché c’è stato di nuovo un contatto con
quella pelle che profuma senza bisogno di profumo, e Martina si trova di nuovo
avvolta da quell’afrore bruciante, questa volte più forte, la maglietta bianca
sembra esserne intrisa. Pensandoci, con Guido non ci ha mai veramente parlato.
Niente, se non quelle poche parole smozzicate nella bolgia del servizio,
sfiorando col proprio respiro quelle due braccia che sussultano sulle pentole,
quel pulsare di vene sulla fronte, quella flessione potente del collo, quel
lento movimento del torace. Martina alza un sopracciglio, abbozzando un
sorriso, mentre con la spugna fa su e giù, su e giù, e le piastrelle diventano
man mano più chiare, e i residui accumulati in chissà quanto tempo saltano via.
Via, via tutti quei brandelli di grasso e sporcizia collosa, nera, fetida. Via,
via tutte le ombre, gli aloni, le sagome opache. Via, via, tutto di nuovo
pulito, lucido, come nuovo. Tabula rasa. Su e giù, su e giù, e il polso si
ingrossa e si piega, i tendini tirati bene in vista. Non mette guanti, Martina.
Ha le unghia malridotte, i polpastrelli rossi, le dita tutte graffi ed
escoriazioni. Ma sta bene, così, con le spalle che frizzano, che l’indomani
fanno male, e tutti i muscoli in tensione, e i capelli crespi, inestricabili,
che non ne vogliono sapere di stare a posto. Sta bene, si, mentre si china, si
allunga, si strappa, si sbraccia, finalmente sudata.
Come mai succedeva con Lui, l’Altro, che faceva di tutto per
renderle la vita facile. “Non sudare non ti sbracciare non ti sporcare non ti
affaticare tesoro mio”. “Non studiare, che Io l’ho fatto e non ne vale la pena,
cinque anni di Lettere e non m’è servito a un cazzo”. “Non cercarti un lavoro,
che è troppo frustrante stressante avvilente”. “No, tesoro mio. Penso a tutto
Io”. “E se proprio ti annoi puoi venire a lavorare in cartolibreria da me. Mi
dai una mano in cassa, mi aiuti con le ordinazioni, l’inventario, i conti”. “Ma
non ti stressare troppo, me la cavo anche da solo, non ti voglio caricare di
responsabilità”. “Sei carina, dolce, alla mano, sai parlare con i clienti, fai
fare bella figura”. “Poi alle rogne ci penso Io, penso a tutto Io, tranquilla
tesoro, fa tutto quello che ti dico Io e andrà tutto bene”. “Accoccolati nel
mio focolare non uso nessun profumo perché non ne ho bisogno non mi nascondo
non mi vergogno”. “Sono come uno scoglio per te”. “Aggrappati, tesoro mio,
aggrappati a Me perché con Me non temerai niente”.
Fine servizio, la gente che
prende i caffè al bar, sorseggia gli amari, si alza, si stiracchia, si saluta,
passeggia per la sala, reprime rutti, sbadigli e altri gesti poco chic.
Francesca cameriera piccola e carina fa un ultimo giro in cucina, saluta tutti
con la sua voce frizzante, passa da Guido, le accarezza le spalle, per un
attimo.“Ieri non è stato male, passa da camera mia anche stasera. Ti aspetto”. Intanto arriva Laura – Laura
barista brillante e disinvolta – che viene a mettere a mollo un po’ di roba
della caffetteria. Gli si appoggia accanto con tutto il corpo, anche lei
piccola e carina. “Bellissima! Anche stasera subito a letto? Niente passeggiata
sul ponte della nave come ai vecchi tempi?”. “Quali vecchi tempi, Guido?”. “Non
fare la gnorri che ancora qualcosina ricordi”. “Non ricordo niente. Ho
rimosso”. “Rimuovi i bei ricordi? Brutta malattia!”. Sorriso contro sorriso,
quasi una sfida a chi riesce ad allargare le labbra di più. Schiaffo sulla
nuca, ma affettuoso, e via a pulire la macchina del caffè. Niente Laura per
questo giro. Pazienza.
Asciugare, mettere in ordine, un colpo di straccio a terra.
“Allora Guido, anche stasera è finita la battaglia?”. “Si, ora a letto che sono
stanco morto”. “Si, Guido! E chi ci crede!”. Risate generali di sguatteri,
camerieri, cuochi e aiuto cuochi. Perfino lo chef si mette in posizione di
riposo e si increspa in una risatina. Pacche sulle spalle e buonanotte a tutti,
anche stasera abbiamo guadagnato la pagnotta. Martina intanto continua a
strigliare, china a terra. Guido le passa accanto e la saluta con un buffetto
sulla testa. Sorriso sghembo, ma le parole gli restano strette in gola. Quali
parole, poi? Guido non lo sa. Mastica un po’ amaro e via dalla cucina.
Destinazione: stanza di Francesca cameriera piccola e carina. Consoliamoci con
le sue carni tenere, le sue chiacchiere, le sue risate, i suoi capelli morbidi,
lisci e districati, le sue cosce dolci e sincere.
III
“Cara la mia bella Martina, visto che hai così
tanta voglia di fare, ti lascio un bel compitino”. Che strano, lo chef
che parla con un tono di voce normale. “C’è quello scaffale di piatti da
scartare, dentro lo sgabuzzino. Lo fai tu?”. Martina annuisce, una mano in
fronte per asciugare il sudore. “Tieni, ti lascio le chiavi, chiudi tu”. E se
ne va, con il suo solito passo militaresco, lasciando la cucina vuota.
“Ah, un’ultima cosa – aggiunge – domani vieni un’ora più tardi. E da ora in poi
niente più extra. Finisci il tuo turno e fuori dai piedi!”.
Voci rimbombano nel corridoio della nave, più dei passi, più dei
rumori della gente dentro le camere, rimbombano voci che non ci sono, frasi che
non sono mai state pronunciate. Perché con Francesca tutto facile, due battute
giuste, due risate provocate, due sguardi ammiccanti, braccio sulla spalla,
bocca sulla bocca, sorriso di chi la sa lunga, e via, una nuova avventura.
Stessa storia con Laura, la traversata precedente. Tecnica rodata in anni e
anni di pratica. Bisogna parlare poco e parlare giusto, solo quanto serve,
mantenere il tono vago da bello e dannato, tenere gli occhi aperti, colpire
quando è il momento, e il gioco è fatto. Nessun impegno e scopate assicurate.
Una meraviglia, già. Ma ecco che Guido si blocca e torna indietro, ecco che
comincia a camminare spedito verso la cucina che ha lasciato da poco, ecco che
ora corre, corre proprio. Niente camera di Francesca, stasera. Voci rimbombano,
frasi che non ha mai pronunciato, parole ancora senza suono.
Nello sgabuzzino male illuminato, mentre ripone i piatti
scartati sullo scaffale, Martina sussulta quando lo vede. Che occhi ha?
Brillano di un tremolare di stella. Ma è la sagoma del suo corpo che la acceca,
quelle linee nette contrastate dalla luce scarsa, forti chiaroscuri che la
scuotono nel profondo. La mano di lui sembra voler afferrare qualcosa
nell’aria, Guido sussurra parole smangiucchiate, che lei non capisce. Fa un
passo avanti, e si sente barcollare. Non riesce nemmeno a guardarla in faccia.
Lei scopre un coraggio che non conosceva, gli si tuffa incontro, gli si
avvinghia con le unghie e prende ad azzannarlo con i suoi baci. Le labbra lo
tempestano di colpi d’ariete, e Guido, come per difendersi, le prende i fianchi
con le due mani. La stringe forte, le sue dita le lasciano i segni rossi sulla
carne, mentre lei continua a martoriarlo con la bocca.
In fondo allo sgabuzzino, a terra cartoni disfatti e carta
d’imballaggio strappata, i due si appiattiscono sul muro, la gamba di lei
alzata. Prendono ad ansimare simultaneamente, rivoli di sudore sulla schiena.
Così, facile, facile, come per Laura, e Francesca, e mille altre, tutte uguali,
tutte scopate assicurate, nessun impegno, stavolta nemmeno la battutina giusta
al momento giusto, nemmeno un minimo di tecnica e trucchetti del mestiere. A
Guido stavolta è bastato presentarsi, farfugliar qualcosa, ed ecco che lei gli
salta addosso. “Puttana! Puttana!”. La cameriera e il lavapiatti che si fanno
una sveltina dentro lo sgabuzzino pieno di piatti. Proprio un bel cliché.
“Puttana! Puttana”, lei sente la voce di Lui, l’Altro, che le urla dentro, e si
scaglia ancora più violentemente contro Guido, come volesse inghiottirlo,
conficcarselo dentro, farlo suo. Ma Lui, L’Altro, non cessa di gridare. Non
cessa di dominarla.
Lui, L’Altro, che la cartolibreria andava bene ma che succede? I
creditori che brutta razza. Facce orrende che bussano alla porta, aliti cattivi
che si sentono anche quando ti telefonano, con quegli squilli che si susseguono
a ogni ora del giorno, fino a tarda sera.
E Lui (serio): Falli venire,
falli chiamare. Non ho tempo da perdere con loro.
E Lui (ride): Quanto la fanno lunga! C’è crisi per tutti ma non è niente di
che. È che sono cagati morti da quello che dice la televisione. Adesso
basta che ritardi un giorno ed ecco che fanno tutto ‘sto casino.
E Lui (sorridente): Non ti preoccupare, tesoro. Ci vuole solo un po’ di
pazienza.
Ma le chiamate continuano. E gli aliti dei creditori si fanno man mano più
cattivi, e quella puzza secca e acida ammorba la cartolibreria e ammorba
Martina che non ne può più. Gli squilli si susseguono giorno dopo giorno e Lui
non risponde mai.
E Lui (agitato): Che strazio! Che strazio!
E Lui (infastidito): Ma tu non ti preoccupare, te l’ho detto. La chiamano crisi
ma io la chiamo psicosi collettiva. Paranoia. Non è niente. Va tutto
bene.
E Lui (arrabbiato): Cazzo Martina, ci manchi solo tu! Vatti a fare un giro e
pensa un po’ ai cazzo di affaracci tuoi.
Ma quali sono i cazzo di affaracci miei, amore mio? Tu sei tutto per me. Dimmi
la verità. Se ci sono problemi ci rimbocchiamo le maniche e ci inventiamo
qualcosa. Ne usciremo! Ne usciremo insieme!
E Lui (fuori di sè): Cazzo Martina ma che dici? Se ti dico che va tutto bene VA
TUTTO BENE. Senti una cosa: sparisci, sparisci per un po’. Questa cosa me la
devo risolvere io, da solo.
E Lui (raddolcito): Comprendimi, fai come ti dico. Fidati di me.
E lei fece come Lui le disse.
Chinò la testa e sparì per un po’.
Lui conosceva un bel posto da dove tuffarsi. Un bel promontorio dove i
tuffatori andavano a farsi i tuffi. Ma Lui non era un tuffatore. Sapeva nuotare
a malapena. Quindi un giorno giù di testa. Giù di testa contro uno scoglio.
Martina si ritrae, si stacca di colpo da Guido, lancia un urlo
che rimbomba nello sgabuzzino, nella cucina vuota e in tutte le sale, le camere
e i corridoi della nave. Guido sobbalza e lascia la presa, mentre gli occhi di
Martina si riempiono di lacrime, e lei si accovaccia a terra, nell’angolo, come
a voler scomparire. Una carezza. Guido tende la mano, le spalle incavate, la
faccia irriconoscibile, per porgerle una carezza. Ma un boato che viene
dall’esterno scuote lo sgabuzzino, la cucina vuota, tutte le sale, tutte le
camere e tutti i corridoi della nave, che saluta così la terraferma, con un
amore carico di una insopportabile violenza. Nemmeno il tempo di chiedersi cosa
stia succedendo, però. Guido e Martina sono troppo intenti nello stupirsi di
quello scaffale carico di piatti che cade giù, spaccando loro tutte le ossa.
Piatti, piatti dovunque. Piatti bianchi rotti e rossi, dovunque. E in mezzo due
corpi ancora vivi che, prima di spegnersi per sempre, cercano in qualche modo
di abbracciarsi.
NF
immagini tratte dai disegni preparatori per la "zattera della medusa"
Ho giusto un nuovo Canto da pubblicare ...
RispondiEliminaNino , un po' lunghetto neh??
RispondiEliminaPero' mi sono impegnanta e l'ho letto fino alla fine. Non mi addentrero' in critiche letterarie o altro perche' non c'azzecco, ma ti posso elencare cosa mi è venuto in mente leggendolo:
RATATUILLE ,
I PEGGIORI CUOCHI D'AMERICA , CHEF ( Real Time),
Gordon Ramsey in Hell's Kitchen
ed infine , ciliegina sulla torta
IL COMANDANTE SCHETTINO che si schianta sullo scoglio dell'ISOLA del GIGLIO.
Sulla lunghezza avevo anch'io il dubbio, infatti ho chiesto pure il permesso, per pubblicarlo.
EliminaLa raccolta di racconti nasce ovviamente dallo spunto del naufragio della Concordia.
Peccato, poi, perchè le critiche letterarie sono quelle che mi interessano di pià.
eh lo so! Ma non sono capace! L'ho letto tutto d'un fiato questo si e mi è piaciuto, ma non è che posso dirti delle robe interessanti, quindi gioco su cosa mi evoca il racconto! :)
EliminaAttendiamo crudele giudizio di Filippo, cheddici??
Bello.
RispondiEliminaUna domanda: perché hai abbandonato il verbo "accartocciare"? L'hai usato più volte nella prima parte, perché poi hai smesso? Avrebbe avuto un senso reiterarlo, soprattutto alla fine, altrimenti potrebbe dare l'impressione di una ripetizione casuale e pertanto sfuggita per distrazione. All'inizio sembra che tu voglia mettere in evidenza che tutto ciò che va da Guido a Martina sia accartocciato, poi, però, tutto si accartoccia davvero: il corpo dell'Altro sullo scoglio, e pure la nave, ma il verbo è ormai scomparso.
"Lui conosceva un bel posto da dove tuffarsi. Un bel promontorio dove i tuffatori andavano a farsi i tuffi. Ma lui non era un tuffatore."
Anche in questa frase le ripetizioni avrebbero il senso di aumentare il pathos, ma potevano esser scritte meglio.
"Quindi un giorno giù di testa. Giù di testa contro uno scoglio."
Qui invece a mio avviso sei impeccabile.
Fine dei miei appunti.
Ciao ciao
Lui si accartoccia quando c'è lei perchè sente un'attrazione; L'altro si accartoccia sullo scoglio perchè la sua maschera autoritaria è crollata; lei si accartoccia su guido, alla fine, i due si accartocciano l'uno contro l'altro, senza però arrivare ad una fusione, senza combaciare, alla fine il loro "scontro" amoroso è un'occasione sprecata, e i due restano "accartocciati" su sè stessi.
EliminaHai ragione: potevo giocarmi meglio con le ripetizioni. Il problema è che, nelle prime stesure, erano troppe. E poi, tagliando tagliando, non sono riuscito a dosarle in modo adeguato.
Grazie mille!
Hai reso benissimo nel commento, bravo!
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