Svolgimento
«Leggere una pagina di Cechov è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita», diceva la Ortese. E si vede proprio scorrere la vita, a posare l’occhio sulle pagine di Città ditrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi), dell’esordiente Davide Orecchio. Racconti infedeli, come recita il sottotitolo: perché Orecchio, narratore con solide basi storiche, ha compiuto un felice tradimento sugli eterogenei materiali d’archivio compulsati. Si è cioè mosso tra documenti e immaginazione, i documenti aiutando a rendere probante l’immaginazione, per dirla con Sciascia. Sotto la lente della letteratura, ovvero di una finzione che smaschera finzioni: per mostrare la vita vera, vissuta. E Orecchio prova a raccontare l’uomo inventando, costruendo biografie (vengono facilmente in mente Lazzarillo de Tormes, Borges, Bolaño). Nel segno del debenedettiano personaggio-uomo: quello che a ciascuno di noi sempre può somigliare. E che il narratore restituisce con un’azzeccata metafora, la città distrutta: «Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite», confessa la poetessa Betta Rauch (che scrive tutta la vita, senza pubblicare nulla), uno dei personaggi che animano il vividissimo teatro della memoria di Orecchio. Il quale pone i propri personaggi, le loro vite, davanti alla Storia. Ed essi ne escono sconfitti, devastati, inadeguati, irrisolti. Così accade con la desaparecida Éster Terracina, che muore sotto le torture, sostituendosi ad un’altra ragazza che le somigliava molto, e che aveva un figlio da crescere.
O con il giornalista Pietro Migliorisi, personaggio squisitamente brancatiano, che sconta tutte le illusioni: «La povertà lo mise al mondo. Mussolini lo inghiottì. Bottai lo deglutì. Badoglio lo rigettò. Togliatti lo prese masticato e lo rimasticò. Stalin lo digerì. Gorbaciov l’ha evacuato». E che dire del regista sovietico Rakar (che ha molti tratti di Tarkovskij), che vive quattro anni d’esilio a Roma, senza riuscire a realizzare quel film che sterili burocrati di partito gli impedirono a Mosca? O di un diplomatico tedesco (dietro cui giganteggia Wilhelm Von Humboldt) presso la Santa Sede, al tempo di Napoleone, che avrebbe voluto scrivere di poesia e di antropologia, e che ama perdersi tra le rovine della città antica, lui che è «spaesato nelle strade che ha dentro»? E a proposito di Napoleone: se è vero che la Storia poco o nulla ci dice dell’uomo di Waterloo, delle sue inquietudini, dei suoi errori, del suo difficile vivere quotidiano, quell’uomo magistralmente ce lo racconta Stendhal, in quell’indimenticabile affresco che è La certosa di Parma. Orecchio si fa «pittore di parole», e dipinge le sue città distrutte: con certi giochi di luce che danno corpo ad una sorta di autobiografia del Novecento, comprese tutte le brutture. Con una prosa agile e potente, domestica e regale, in cui narrazione e saggismo rivelano una sorprendente maturità: quella di uno scrittore che ha ancora molto da dire.
Giuseppe Giglio
«Leggere una pagina di Cechov è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita», diceva la Ortese. E si vede proprio scorrere la vita, a posare l’occhio sulle pagine di Città ditrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi), dell’esordiente Davide Orecchio. Racconti infedeli, come recita il sottotitolo: perché Orecchio, narratore con solide basi storiche, ha compiuto un felice tradimento sugli eterogenei materiali d’archivio compulsati. Si è cioè mosso tra documenti e immaginazione, i documenti aiutando a rendere probante l’immaginazione, per dirla con Sciascia. Sotto la lente della letteratura, ovvero di una finzione che smaschera finzioni: per mostrare la vita vera, vissuta. E Orecchio prova a raccontare l’uomo inventando, costruendo biografie (vengono facilmente in mente Lazzarillo de Tormes, Borges, Bolaño). Nel segno del debenedettiano personaggio-uomo: quello che a ciascuno di noi sempre può somigliare. E che il narratore restituisce con un’azzeccata metafora, la città distrutta: «Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite», confessa la poetessa Betta Rauch (che scrive tutta la vita, senza pubblicare nulla), uno dei personaggi che animano il vividissimo teatro della memoria di Orecchio. Il quale pone i propri personaggi, le loro vite, davanti alla Storia. Ed essi ne escono sconfitti, devastati, inadeguati, irrisolti. Così accade con la desaparecida Éster Terracina, che muore sotto le torture, sostituendosi ad un’altra ragazza che le somigliava molto, e che aveva un figlio da crescere.
O con il giornalista Pietro Migliorisi, personaggio squisitamente brancatiano, che sconta tutte le illusioni: «La povertà lo mise al mondo. Mussolini lo inghiottì. Bottai lo deglutì. Badoglio lo rigettò. Togliatti lo prese masticato e lo rimasticò. Stalin lo digerì. Gorbaciov l’ha evacuato». E che dire del regista sovietico Rakar (che ha molti tratti di Tarkovskij), che vive quattro anni d’esilio a Roma, senza riuscire a realizzare quel film che sterili burocrati di partito gli impedirono a Mosca? O di un diplomatico tedesco (dietro cui giganteggia Wilhelm Von Humboldt) presso la Santa Sede, al tempo di Napoleone, che avrebbe voluto scrivere di poesia e di antropologia, e che ama perdersi tra le rovine della città antica, lui che è «spaesato nelle strade che ha dentro»? E a proposito di Napoleone: se è vero che la Storia poco o nulla ci dice dell’uomo di Waterloo, delle sue inquietudini, dei suoi errori, del suo difficile vivere quotidiano, quell’uomo magistralmente ce lo racconta Stendhal, in quell’indimenticabile affresco che è La certosa di Parma. Orecchio si fa «pittore di parole», e dipinge le sue città distrutte: con certi giochi di luce che danno corpo ad una sorta di autobiografia del Novecento, comprese tutte le brutture. Con una prosa agile e potente, domestica e regale, in cui narrazione e saggismo rivelano una sorprendente maturità: quella di uno scrittore che ha ancora molto da dire.
Gigghio the second alle prese con un libro che sembra bello assai e che metto nella lista delle cose da comprare/leggere. Ma Gigghio stroncatore com'è?
RispondiEliminaRibadisco che la differenza tra narrazione e critica in Gigghio non esiste.
GD
Caro GD, io mi limito a lasciar parlare il libro...
RispondiEliminaGiglio io ti leggo con sospetto :)
RispondiEliminaA me invece piacerebbe leggere una storia totalmente realizzata da GG (giusto?) perchè in questi pezzi, che comunque hanno l'aria di critica, ci sono degli elementi narrativi molto forti, e quindi mi chiedevo: perchè non isolare questi elementi? Perchè non utilizzarli in una storia? Perchè una frase come "Sotto la lente della letteratura, ovvero di una finzione che smaschera finzioni: per mostrare la vita vera, vissuta", non può essere la base di un albero con migliaia di rami che si intersecano, si perdono, cadono, fioriscono?
RispondiEliminaLancio una simil-sfida con la voglia di rileggerti presto, GG!
Complimenti sempre!
Ciao!
Grazie, Federico! :))
Eliminaok...voglio un appuntamento fisso con i post di Giglio!! :)
RispondiEliminaMeis
Devi chiedere alla maestra... :))
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