C’era
qualcosa di rancido, nell’odore dell’aria, quando entrammo da una porta doppia
a vetri fumè. La sala immersa nel buio la intravedemmo a stento, e ci
guardammo. La decisione di entrare, comunque, era presa. Procedemmo con una certa
fatica, e avanzando era come scendere in profondità. Sotto il pavimento io
percepii chiaramente dell’acqua
-
L’acqua. La sento -
-
Quanta ce n’è, stavolta? - mi chiese.
-
Poca, uno strato sottile. Qui sotto è tutto vuoto. Ma è solidissimo, il vuoto,
non c’è da avere paura. Regge tutto il ristorante.
Distratti
da un riflesso guardammo in fondo alla sala, e scoprimmo un bancone ricoperto
di specchi. Malamente illuminate da quei bagliori una donna di una certa età e
una più giovane ci guardavano immobili, senza distrarsi.
Il
ristorante era vuoto, oltre a noi non c’era nessuno. La ragazza ci sistemò in
uno dei tavolini quadrati addossati alla parete. Era già apparecchiato per noi
con un’incerata marrone e una tovaglia bianca, stirata da una pressa
industriale. Ordinammo cucina cinese, ma anche tenpura giapponese, che mangiammo lentamente, facendo scricchiolare
una crosta sottile di escrescenze che il cuoco aveva esploso in padella, e
all’interno scoprimmo una piccola luce, del pesce brillava di un bianco innaturale.
Mentre lo mangiavamo ci guardavamo in silenzio. Le due donne intanto guardavano
noi, e a un certo punto l’anziana si staccò dal banco.
-
E’ buonissimo - le dissi.
-
Usiamo ingredienti che non sa nessuno. Molta gente viene apposta da noi, anche
da fuori, partono anche da molto lontano. La sera siamo pieni. Allora apriamo
la sala “Giappone”.
-
Ah, allora questa è la sala cinese -
-
Cina, sì. Venga, le faccio vedere -
Mi
alzai, la seguii. Mi fermò con la mano quando arrivammo sulla porta di una
stanza buia.
-
Resti lì, accendo le luci, - mi disse andando in fondo alla sala. Poi tornò e
si posizionò accanto a me, come se dovesse cominciare qualcosa.
Mi
accorsi subito che nella stanza c’erano persone invisibili. Erano tutti
anziani, seduti uno accanto all’altro su un piccolo divano deformato. Ero stata
io a suscitare il loro interesse e a richiamarli lì. I ristoranti li
intrigavano. Il cibo in genere. Il fatto che io mangiassi. Ridevano spesso, ma
erano risate brevi e rapide, ridevano con una certa impazienza, stando attenti
a non sprecare tempo. Le teste erano pallide luci, e furono le prime a
cominciare a muoversi con cautela, dopo venne tutto il resto. Si alzarono con
grande lentezza e in successione, le donne esibendo i loro abiti vecchi e
sfarzosi, in stile occidentale, gli uomini affiorando in mezzo ai pizzi delle
signore, facendo uscire piccole teste da colletti smilzi e da giacche svuotate,
che sembravano non contenere nessuno. Le facce erano scorze leggere che
filtravano la poca luce. La loro memoria era qualcosa di luminoso e floscio
sospeso sopra le loro teste, a cui loro cercavano inutilmente di collegarsi.
Una donna anziana disse qualcosa, e intanto la sua voce si indeboliva al
centro, come formando una sacca, dove si depositavano parti di quello che
diceva, che non riuscivo a sentire.
Anche
se non fossi riuscita a vederli, avrei dovuto ammettere che in quella stanza
c’era qualcosa di vivente. Si capiva dalla forte umidità dell’aria. La sala
aveva l’aspetto torbido di un fondale, e immaginai che l’acqua, là sotto,
doveva riversarsi in piena. I vecchi parlavano di quando erano giovani e tutto
era fertile e rigoglioso. Mi veniva da prostrarmi.
-
Che ne dice? - mi chiese la ristoratrice. Non capivo a cosa si riferisse.
Sentii lo scarico dell’acqua provenire dalla parete accanto. Non smetteva, come
se fosse rotto. La sala in realtà era di uno squallore assoluto, ma mi
complimentai con lei per il buon gusto.
La
donna mi lasciò lì ancora un po’, poi, appena trascorse un tempo che ritenne
sufficiente, si mosse e io capii che la visita alla sala era finita. Mi distolsi
e tornai al mio tavolino come tornassi al lavoro.
La
ristoratrice aveva fretta di prenderci le ordinazioni, benchè a noi non si
fossero aggiunti clienti. Poi tornò a prendere il suo posto al bancone, questa
volta sistemandosi davanti allo sportello di vetro di un frigobar. La ragazza
ci portò altre pietanze e mentre le disponeva sul tavolo io mi misi più
composta sulla sedia. La donna più anziana si mosse allora con me, uno
spostamento impercettibile davanti al vetro del frigorifero e vidi brillare
dietro di lei piccoli lampi di luce polare. Si lasciava illuminare la schiena
da gelati e bevande ghiacciate. Allora li immaginai insieme, lei e il
frigorifero, in mezzo alla steppa battuta dal vento della Manciuria.
Ecco
cosa alla fine le due donne mi ricordarono: due grossi quadri di comando
elettrici che avevo visto mentre su un tapis roulant raggiungevo il gate di un
grande aeroporto. Durante lunghi lassi di tempo erano come quiescienti,
mandavano solo brevi luci ad impulsi, per attivarsi solo in caso di allarme.
Si
mise a piovere. La ristoratrice fece una smorfia di disappunto. Il cielo non si
occupava di lei e lei ne era seccata. Qualcuno l’aveva ingannata di recente, o
informata di un fatto. Nella steppa intanto tirava un vento freddo. Gli inverni
erano rigidi ma c’era una certa dolcezza dovuta alla presenza delle acque e al
passaggio di certe perturbazioni calde provenienti da sud, ma piucchealtro alle
tradizioni che riguardavano la mobilia delle case: il kang, dove erano ammassate coperte riscaldate da un braciere, era
il posto dove si svolgeva gran parte delle attività quotidiane, ma servì anche
durante l’occupazione straniera per nascondersi e scampare ai nemici. La steppa
era il paesaggio più congeniale alla ristoratrice. Era qualcosa di sconfinato,
il posto che le si adattava meglio. Non le anse fertili di un fiume, o, peggio,
il territorio a sud, così umano; a lei piacevano il freddo e il silenzio delle
grandi estensioni, dove tutto è uguale a se stesso, dove niente avrebbe potuto
turbare la quiete di cui poteva godere, finalmente.
Alla
fine del pranzo, prima di pagare e andarmene, dovevo andare in bagno. Chiesi
alla ragazza, che mi indicò un cortile da attraversare. Pioveva piano. In mezzo
al cortile, coperto di ghiaia fine che scricchiolava sotto le scarpe, c’era una
piccola pozza di acqua torbida, racchiusa da un cordolo di tegole infilate per
terra in verticale. L’aria era pesante e umida, e si mescolava all’odore di
frittura che veniva dalla cucina. Nella pozza nuotavano alcune carpe sbiadite.
Si muovevano lentamente da una sponda all’altra trascinando barbigli e
brandelli di pelle sfilacciata. Accanto alla pozza c’era un carrello di
supermercato. Dalla sommità del muro che delimitava il cortile vidi le
estremità di pali elettrici e cavi della corrente, i tetti di alcune case basse
vicine, e, sopra, un groviglio di antenne e parabole di diverse dimensioni. Il
resto del cielo era occupato da nuvole scure. Pensai che, inquadrati dall’alto
in mezzo a quel quartiere di periferia, in quel giorno di pioggia, io e la
persona con cui stavo avremmo potuto sembrare vicini, quasi indistinguibili.
Addossata al muro, accanto al bagno, c’era una fila di sedie uguali a quelle
della sala giapponese, ma ognuna aveva qualcosa di rotto o sbilenco, una gamba,
un sedile, uno schienale. Mi sembrarono tutte riservate, e avevo voglia di sedermi
lì per un po’, accanto a qualcuno che doveva arrivare.
Maria Rita Battaglia
Com'è misterioso questo racconto, pieno di fumi, atmosfere umide e fantasmi! Come in certi film orientali di autore, lo stesso senso dell'attesa, il tempo che pare compresso, i gesti che si fanno preziosi. La cifra di Maria Rita è questa, e a me piace moltissimo.
RispondiEliminaGrazie Roberta, un tuo commento è puntualmente di grandissimo incoraggiamento per la mia scrittura.
EliminaAnche a me è piaciuto tantissimo., è surreale e suggestivo. Una scrittura particolare. Accoglierti rende armonioso un blog come questo. Bravissima.
RispondiEliminaper un po' mi ha fatto dimenticare la TARES e tutto il resto. So che capisci che voglio dire. non è poco. Francesca.
RispondiEliminaStampato, letto e gustato. Complimenti per la capacità di osservazione e puntigliosa descrizione.
RispondiEliminaFelice Muolo
Gran bell'evocare questo racconto. Rischi di perderti come frigo nella steppa a gustarti tutte le pietanze del menu, come la voce che, indebolita al centro, forma una sacca, e vi si deposita parte non ascoltata o le carpe dalla pelle sfilacciata o quei vasistas che sputano buio rincuorante. Secondo non si deve pagare poco. E chissà se danno la ricevuta fiscale al Manchukuo o chiedono loro, proprio alla fine, la restituzione di tutto il sogno. Magari come mancia.
RispondiEliminaL'aggettivo per me è "inquietante", io in questo ristorante non ci metterei piede per niente al mondo. Mi dispiace un casino però rinunciare a quella frittura croccante descritta così bene. Brava. (emoticon in pastella)
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