Svolgimento
Quando
comprendi che non hai possibilità di catturare aria nei polmoni, il panico che
ti assale possiede un che di disumano. Come un arto meccanico, esso abbranca
l'animo fino a stritolarlo in una morsa, schiaccia i fianchi e le tempie, ti
permette di percepire chiaramente il pulsare di ogni singolo capillare delle
membra, diventi un circuito elettrico di dolore, i cui impulsi sono i conati
vita che la pelle a stento riesce a trattenere.
I
nervi si trasformano in cavi dell'alta tensione e ti scottano dentro, bollenti.
Trattieni
il respiro.
Il
panico continua a correre attraverso le tue sinapsi, le contorce nella
confusione dei calci che lanci al vuoto, si scatena nelle vene intasandoti i
pensieri, bloccando la salivazione e scaldando le budella. È incredibile come,
nel silenzio di quell'apnea, la mente acquisisca la forma di un affollato
mercato cittadino che moltiplica le voci della tua testa, soverchiando la
quiete della tua morte con il baccano di una folla immaginaria. È il soliloquio
della pazzia, anticamera di ciò che ti aspetta quando le tue ultime energie
saranno sputate fuori da quel cadavere ormai pieno di niente.
La
seconda cosa verso cui la tua attenzione si punta è il liquido che circonda le
tue carni, come un vestito di due misure più stretto. Scalci e ti dimeni, ma
non puoi toglierti di dosso quella fluida stoffa, così aderente. Ogni suono è
ovattato, bocca e occhi chiusi ermeticamente come una fortezza sotto assedio.
Percepisci la morte che bussa ai tuoi cancelli, desiderosa di inondarti con la
sua carica. «Devi resistere» Il sussurro che sovrasta in importanza le altre
voci nella tua testa è l'unico suono cui devi prestare attenzione. «Devi
resistere», ti dice. Lo ripete, ossessivamente.
«Devi
resistere.» Sei un guscio inespugnabile.
Mentre
i secondi diventano ore, dilatandosi il tempo nel mezzo dell'incendio che ti
divampa dentro, trovi sufficiente lucidità per valutare la tua situazione. Non
ricordi come sei finita lì, ti sei svegliata dentro questo calderone, le
articolazioni doloranti a testimoniare forse una colluttazione, un pestaggio
che potrebbe spiegare anche la perdita di conoscenza dalla quale ti sei appena
ripresa. Dolore mentale e dolore fisico si confondono in sfumature di difficile
definizione, il seno tumefatto pulsa sotto la maglietta lacerata, gomiti e
ginocchia sbucciati bruciano, le labbra tagliate rimangono serrate per evitare
che il liquido ti invada la bocca. La confusione regna sui tuoi pensieri, come
se la memoria a breve termine fosse stata imbavagliata. Ti giungono alle
orecchie suoni indecifrabili dall'esterno di quel lago: alcuni sembrano spari,
o forse martellate, altri ricordano voci umane e crudeli, concitate. La ferita
nel costato, di cui prima non t'eri accorta, invia una fitta di dolore
lancinante al tuo cervello. Non ricordi quale sia l'origine di quel buco tra le
costole, brucia come un coltello nelle carni. Maledizione, che succede?
Trattieni
il respiro.
Trattienilo
finché puoi, non osare di metter fuori la testa dalla superficie, non sai se
quel che ti attende là fuori sarà meglio o peggio di ciò che qui ti sta
trattenendo. Devi prima vagliare bene tutte le possibilità. Nessuna
avventatezza potrà esserti d'aiuto. Mano a mano che le ultime calorie del tuo
corpo vengono bruciate e le scorte di ossigeno si fanno sempre più scarse,
acquisti maggior lucidità. Ti trovi a pensare quanto sia strano come,
all'avvicinarsi della morte, tutto diventi più chiaro: i sensi si acuiscono, le
percezioni aumentano esponenzialmente in efficacia, è la lucidità prima della
sconfitta.
Morire
è un risvegliarsi.
È
proprio in questo risveglio che ti rendi conto della natura del liquido nel
quale sei immersa. La risposta che fa capolino tra le idee che vorticano
isteriche ti costringe a un rifiuto quasi rabbioso, mentre all'esterno di
quella vasca le voci si alternano a colpi di pistola. Le tue dita inviano al
cervello la sensazione di viscosità che domina quel terribile lago. Non si
tratta certo di acqua, e questa raccapricciante certezza costringe il tuo cuore
ad accelerare contro la tua volontà, buttando via preziose energie, trafugate
da un'agitazione che non riesci a controllare. Puoi a malapena resistere alla
tentazione di risalire verso la superficie: ora l'aria, fresca od opprimente
che sia, ti sembra una salvezza paragonabile solo alla vita che nasce; i tuoi
piedi, disobbedendo all'opacità del sistema nervoso, accennano un paio di colpi
di pinna, ma li fermi subito, resistendo al richiamo dell'atmosfera.
Sei
soffocata, stai soffocando, la vita ti guizza dentro desiderosa d'uscire fuori,
la sua forza selvaggia non tiene conto del pericolo incombente. Ma, più forte
di lei, riesci a tenerla incatenata a te, contro ogni istinto di sussistenza.
Non
respirare.
La
memoria è uno strano scherzo del destino. Essa può rappresentare la disfatta
per alcuni, ma altri li può spingere al trionfo. È un puzzle di particolari che
si spezzano, confondendo colori e frammenti sul pavimento della storia, e
quando una memoria viene persa, ecco che un edificio di vaste dimensioni crolla
irrimediabilmente. La memoria spesso viene smarrita, ma un piccolo impulso, una
irragionevole possibilità di ricomporre ciò che è polverizzato, può restituire
senso a quei pezzi sbriciolati. Nell'improbabile momento in cui le tue dita
vengono a contatto con la fredda mano di un cadavere, uno di quei pezzi va a
incastrarsi al giusto posto, iniziando a formare un ormai insperato mosaico. In
quell'istante, alcune delle voci che senti attorno a te, voci provenienti dalla
superficie, ti riportano alla mente molte facce celate nell'ombra della tua
disperazione: alcuni volti amici e altri nemici, sottratti al tuo sguardo da un
colpo di fucile, da un coltello conficcato, da una corda stretta attorno a un
collo.
È
una piscina di sangue, quella nella quale tieni stretta la tua apnea.
Il
flash che ti attraversa sconquassa le carni d'un tratto, a ritroso il ricordo
viene travasato dal subconscio alla vivida coscienza, che ora brucia di rabbia:
l'esanime tuffo in quel lago di morte, il colpo di pistola a bruciapelo nel
costato, il pestaggio subito da barbari in mimetica, l'inutile ribellione, tuo
marito sgozzato davanti al villaggio in fiamme, tuo figlio scappato in mezzo al
bosco assieme alla speranza di rivederlo, un giorno, vivo o morto. Le urla
degli abitanti, le donne straziate, le bocche delle mimetiche, colme di un riso
crudele.
Maledette,
maledette, maledette!
Tutt'attorno
a te galleggiano cadaveri, è uno spavento quello che t'assale improvviso, come
se la mente esplodesse, incapace a sopportare quell'overdose di realtà sparata
nelle vene nell'arco di un istante. Ti accorgi del piede umano che ti solletica
il seno scoperto, la carezza delicata e senza vita di un'altra vittima ti tocca
la schiena nuda, i tuoi piedi poggiano non su un fondale di sabbia, bensì su di
un carnaio popolato da corpi straziati, il cui sangue ha interamente
rimpiazzato l'acqua, sulla riva di questo lago. La devastazione che ti
circonda, il plasma che avvolge il tuo corpo ancora vivo, la memoria che
percorre il sistema nervoso fino a toccare l'ultima goccia di dolore: tutto
questo, invece di distruggerti, riempie nuovamente le tue stanche membra di una
forza inattesa, come se la vendetta sostituisse l'ossigeno dei muscoli; la
rabbia, l'aria dei polmoni; la tensione, la fame di nuova luce.
È
vita, quella che senti?
Forse
è la vita perduta di tutti coloro che accalcano questo fondale: essa grida
attraverso te, trovando fiato nelle tue narici che sbuffano sangue, nei tuoi
occhi che si spalancano sfidando il bruciore, nella tua bocca che con un urlo
prosciuga questa pozza di morte; trovando nella tua vita risparmiata un mezzo
per reclamare il proprio tributo. Forse non sei più te stessa poiché, quando ti
avvicini troppo alla tragedia, il tuo animo si rintana in un angolino distante
della mente, nascondendosi allo sguardo dell'inferno. Forse, in un momento come
questo, tu sei qualcun altro, trasfiguri le tue stesse carni in uno spirito che
mai avresti potuto immaginare, e che forse nemmeno il destino avrebbe avuto
l'ardire di disegnare per te.
Quando
ci si accorge di quanto è stato perduto, allora ci si rende conto che
nascondersi sotto la superficie del lago, sia esso colmo di sangue o di acqua,
non ha più senso. Si deve riemergere, giocandosi il tutto per tutto, e
riportare la testa laddove potrà cercare la soluzione o, tutt'al più, una
vendetta senza compromessi.
Stringendo
la mano del corpo che accanto a te galleggia,
sottratta a un fratello o a una sorella, trai una boccata corposa e
tiepida di quel viscoso liquido rosso, lasciandoti possedere dall'acre sapore
che ti va lentamente a lastricare l'intero esofago, lasci che si immerga dentro
di te, come un fantasma. Dandoti una spinta con i piedi sui crani e i corpi che
affollano il fondale, spalanchi gli occhi, in un conato di vomito che t'assale
e al quale ti costringi a resistere, stoicamente. Le pupille bruciano d'un
pianto scarlatto, il tuo cervello rallenta lo scorrere dei secondi e riesce a
guardarsi attorno, nell'opaca solitudine che t'accompagna in questo ultimo
viaggio: il rosso vivo tinge il tuo campo visivo, e il ricordo che ti torna
alla mente è quello dei mille tramonti mediterranei che così tanto hai amato
durante le numerose sere di primavera, quando la mano del tuo amato possedeva
ancora la forza per stringersi attorno alle tue dita sfrigolanti di desiderio.
Quel
che ti attende, là sopra, lo sanno solo gli dei. Ma se solo riuscirai a
sopravvivere, allora non tutto sarà perduto.
Con
la forza della vita di tutti coloro che in quel luogo hanno incontrato la
morte; con la consapevolezza di non essere più nient'altro se non un automa
composto di macerie; con i brandelli di vestiti, il buco nel costato, la
solitudine della vittima e il sangue dentro e fuori del corpo, il tuo urlo
sventra finalmente la superficie del maledetto lago.
Respira.
Ora.
Riccardo
Dal Ferro
Complimenti, Riccardo, per questo post carico di accumuli che accrescono la tensione. Inquietante, a un certo punto manca il fiato anche al lettore. Secondo me, però, la prima parte funziona meglio della seconda.
RispondiEliminaIn ogni caso, ti do il benvenuto e ti ringrazio per aver partecipato
Spero di rileggerti presto!
Federico
Direi che con questo tema sono davvero nel mio elemento. Tecnicamente la sensazione di mancanza di respiro in apnea si chiama "fame d'aria" e si scatena quando sale il livello di anidride carbonica nel sangue e i neuro recettori si attivano per segnalarlo all'organismo. Il risultato è che il diaframma pulsa, dando delle gran testate in verticale. Chi riesce a trattenere il respiro a lungo in queste condizioni, semplicemente sviene, si addormenta a causa della troppa anidride carbonica. Poi muore appena l'epiglottide - che si è contratta come meccanismo di prima difesa - si distende e l'acqua gli entra nei polmoni. Direi che è una morte dolce. In alternativa, chi invece si fa prendere dal panico apre la bocca e fa entrare acqua. Non credo sia una bella sensazione. Benvenuto, Riccardo.
RispondiEliminasono rimasta senza respiro!
RispondiEliminaGrazie Riccardo della tua partecipazione, a rileggerti ...
Complimenti! Pieno di tensione, resta in apnea ance il lettore. L'esplosione finale dell'urlo è il ritorno alla vita più bello che abbia mai letto.
RispondiEliminaBravo Riccardo questo racconto che non è possibile sia stato scritto tutto d'un fiato ha assolutamente questo pregio, da proprio la sensazione che sia stato scritto con una sola presa di penna, e per giunta in diretta.
RispondiEliminaGrazie a tutti voi, è stato un piacere partecipare!
RispondiEliminaAdelaide, mi spiace contraddirti ma questo racconto è stato scritto esattamente di getto! Grazie!
Ciao Riccardo e benvenuto! Il tuo racconto mi è piaciuto molto all'inizio, descrive con ricchezza di dettagli e immagini forti la situazione di qualcuno che sta annegando, che personalmente credo sia una delle morti più terribili... Ma il tutto è ancora peggio! La tensione, tuttavia, per come la vedo io, si è andata smorzando man mano che il racconto continuava, quindi devo concordare con Federico. Complimenti comunque!
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