domenica 23 settembre 2012

Tema: Non lo saprai mai

«Non lo saprai mai», disse guardandosi allo specchio.
Non sapeva cosa pensare e l’unica cosa sensata che gli venne in mente di fare, fu di guardarsi allo specchio. Nulla distoglieva il suo pensiero da ciò che gli svuotava la pancia giorno dopo giorno, dimenticandosi persino della notte. Si vedeva spento. Sapete, quelle macchie che si formano su uno specchio dopo anni che lo tenete appeso al muro? Come se ci si specchiasse troppo spesso per troppo tempo, come “è tempo di cambiare questo specchio, ma non credo lo farò mai”. Adesso non aveva proprio niente da perdere perché non aveva niente neanche in tasca, era vuoto e come un albero stava fermo, mentre il gatto gli si raggomitolava sulla pancia. S’addormentò, seduto sulla sedia con la sinistra sul gatto e la destra sulla testa.

È mattina. La radiosveglia (puntata alle 11.00) dava Iggy Pop e il suo idiota, anche se lui non aveva chiuso occhio un’altra notte. «Certo che la tecnologia è proprio fenomenale –pensava- fino a vent’anni fa potevi soltanto ascoltare la radio e ciò che dava, svegliarti con la paura di sentire roba anni ’80 italiani, mentre adesso puoi persino programmare il tuo brano preferito o scegliere di svegliarti con la nona di Beethoven, grazie a questo coso minuscolo; io che diamine ci faccio ancora a letto? Forse ho voglia di parlare, da quando sei andata sembra il finale di un film muto: nero, bruciature agli angoli, la gigantesca scritta “fin” in corsivo bianco al centro e di te neanche l’ombra. Alzati e vai in bagno» Sentì squillare il telefono, rispose a quel suo fratello, quello imparziale, l’amico di sempre. Si misero d’accordo su ciò che c’era di noioso da fare durante questa bellissima giornata dedita all’ozio, -perché si sa, quando non hai un cazzo da fare è difficile che t’arrivi un miracolo che ti proponga cose simpatiche e poi Palermo è diventata una città morta, c’è spazio soltanto per i cerebrolesi tunz-tunz del sabato sera e se vuoi bere una birra meglio una bettola, io non ci metto piede in quelle gabbie di matti- tipo andare a bere una birra in una bettola, che diano musica buona almeno.


In macchina. Frugando dentro al cruscotto trovò delle carte tra i dischi che aveva comprato per quella camurrìa di fissazione che aveva, quella di avere gli originali dei suoi preferiti; trovavi dalla new wave all’elettronica, dal jazz manouche al blues più spietato. Gli piaceva urlare tempo fa –ha urlato talmente tanto ad un concerto, che non sentiva più la cassa che aveva davanti- e una delle carte che trovò era proprio un urlo, a squarciagola, una lettera di chiusura, dei titoli di coda. Non andava bene non pensarci, castrarsi inutilmente. Per cosa poi? Parole urlate durante una caduta dalla quale è difficile ridestarsi. Lei non aveva spazio sulla parete, non poteva metterci dei quadri troppo grandi perché lei non aveva spazio. Quelle ultime parole dicevano così:

Le ringhiere che recintano i palazzi potrebbero contenermi? Urlerei troppo per permetterlo! Voglio il cielo e il tuono, la pioggia fitta sul viso, saltar via nel cielo grigio di scirocco e abbattere le atmosfere, aprire dibattiti su scelte poco convenzionali e staccare la coda al mio annuncio affranto! Triste, monotono e bianco. Io muoio e risorgo come il tuo dio, senza pensarci, senza motivi decenti se non quello della folle corsa all’armi per la libertà.

Le mani della gente che bigotta brama al buio, potrebbero vietarmi di vedere? Sono troppo folgorato per aprire gli occhi! Datemi il silenzio, datemi la banalità, costruirò cattedrali per la mia vedova e le darò dei titoli di coda degni d’una lucertola, degni dello sforzo di una bugia, il riscatto di passarci addosso. Questo è lo strazio dei poveri, degli uomini: l’indifferenza letale.

Potresti, tu, guardarmi negli occhi adesso? Hai il rimorso che ti lecca le labbra, non sai se stringergli la gola o aprir le gambe ed invitarlo. Hai tutto in mente, ogni istante è troppo e negli occhi…negli occhi, l’oblio che di stupidità t’ha ricoperta e mi hai lasciato qui, come un sanpietrino o un biglietto d’aereo, fotografie, spille, canzoni, parole.


Ripose i dischi al loro posto, la carta sembrava a suo agio tra quelle plastiche e ripose anch’essa al posto giusto. Mise in moto e partì pensando che dopo tutto, quando piove si sta bene. Si allontanò in abominevole vergogna, percorrendo controproducenti ingorghi intrecciati sul suo petto o sulle costole. Strade senza senso in cui uniche pedine son pensieri e stracci di racconto rilegato in cuoio o sparso per terra. Fiumi racimolati giorno per giorno accaparrando uno spicciolo di terra e scavandoci il posto per lo stomaco, per il fegato, per gli occhi. Carta per le mani e per i piedi. Ritrova in tasca un biglietto acquistato e lo rimette al posto in cui sta meglio: all’uscio, è questo il posto. Brontola cupo il tamburellare delle dita sul volante in gomma nera usurata, metafora e prova dei suoi giochi di parole e degli scanti di paure. Un branco di capelli fa rivoluzione e nel tiepido sudore di questa notte senza sonno, desidera la sua pelle e allora si fa un mare grandissimo, si fa grande il suo fosso, il suo pudore, si fa grande il suo cuore, per soccorrerla abiurando anche se stesso.

Antonio Siddolo

5 commenti:

  1. Antonio, nel complesso mi piacque. La sensazione è stata come quella di ascoltare una canzone "stonata" , ma uno stonato appropriato.

    La rileggero' fino a quando non riusciro' a coglierne l'armonia.

    Good Job!


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    1. convengo con Wood, c'è uno stonato appropriato: è un pezzo che va "sgrassato", ci sono un 20% di parole in più. Questo pezzo deve acquisire una lucidafollia, invece si perde in giochi e ripetizioni di parole.
      GD

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    2. Sti azzi! pensarla come te per me vale 100!! sei il mio GURU!

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  2. Buondì, vedremo al prossimo post, questo è stato il primo tentativo e non posso non far tesoro di ciò che viene scritto qui.

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  3. A me piacciono! Mi riferisco a quelle parole in più...che girano intorno quasi slegate tra loro e si contrappongono al titolo del pezzo. Quante cose ti ho detto alla "fin" e non lo "saprai mai"...

    Nina

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