sabato 29 settembre 2012

Tema: Abbiamo VINTO i Macchia Nera Awards 2012! Miglior Blog Letterario!!

A caldo:


La serata non parte proprio bene purtroppo. Causa pioggia i premi abbandonano la rocca di Riva del Garda e si trasferiscono sulla terrazza di una marina sul lago. Meglio iniziare bevendo qualcosa ci diciamo con gli amici che mi accompagnano. Il tempo di un aperitivo a ci raggiunge il Melon. Mentre rimiriamo inquietanti costruzioni sulle montagne intorno a Riva, la terrazza si anima di gente. L'attesa non può che essere riempita di osservazioni su questo o quel personaggio che attira la nostra attenzione. Qualcuno inizia ad innervosirsi, e non è il Melon al quale giro il numero di telefono della Wood: non riesco a pensare nemmeno a degli sms di senso compiuto, ammesso e non concesso che quelli della Wood e del Melon li abbiano!

Tema: I patrulleros

(da un romanzo in cantiere)

Che possa essere divorato dalle formiche rosse. Che l’anima sua possa bruciare tra le fiamme dell’inferno. Don Juan Mateo è un patrullero.

Così Tomasa disse un giorno che mi ero presentato da lei per il caffè, poi sbatté la porta e  continuò ad imprecare.

Vai da lui, vai da lui che ti racconterà la verità meglio di ogni altro.

Da dietro la porta tentai di spiegarle che Juan Mateo con me si divertiva a far vedere quanto era bravo a parlare la lingua dei bananieri. Tomasa aprì la porta e con tono di comando mi ordinò di sedere. Ci sono cose che tu devi sapere, poi si sedette. Trascorsero istanti lunghi e interminabili, prima che lei parlasse, nella sua mente riesumava pezzi di vetro che andavano a lacerare ferite mai chiuse, tagli sopra tagli dove il martirio era la nota dominante, le tumefazioni il colore; io tenevo le dita incrociate e tese, districarle sarebbe stata opera ardua, le gambe immobili, come l’aria d'altronde, tutto fermo in un incanto, in attesa che le parole di Tomasa dessero il permesso di respirare. Il suo viso intanto impallidiva, trapelava orrore, le labbra secche, gli occhi asciutti. Solo quando tutto il mondo sembrò pronto per ascoltarla, solo allora lei iniziò. (Le parole si riversarono al ritmo del sangue che defluisce da vene mozze, potente il fiotto dapprima e poi lento, sino a che le ultime gocce trovano la forza di incontrare l’aria, divenendo il niente delle memorie destinate a perdersi.)

mercoledì 26 settembre 2012

Tema: Sez. Attrici - Isabella Rossellini

Svolgimento


Sempre viva, sempre eternamente viva!

Lo dico a tutti, è vero, ma i miei clienti sono così esigenti, cosa vogliono da me? Vogliono vivere, apparire, vogliono vedere tutti gli altri invecchiare, la loro pelle flaccida, le ossa diventare deboli e i capelli avere il colore del fumo o delle nuvole – le stagioni non mi appartengono, io inseguo la primavera, non conosco l’estate, troppa luce, né l’inverno né l’autunno, non sopporto la vista degli alberi che invecchiano e si coprono di bianco. I miei clienti, come me, non seguono le ridicole leggi della natura: nascere, crescere, invecchiare e morire – soprattutto morire – perché? Per quale motivo si dovrebbe vivere andando incontro alla decomposizione? Io no, questa legge non mi appartiene, ho abbandonato la strada principale per seguire vie destinate a pochi. Insieme a me, personaggi che si sono opposti al decadimento delle cellule, alla perdita dei capelli, alla sfocatura degli occhi: giovani, belli, perfetti. Cosa li spinge da me? Hanno paura, tutti, di perdere il controllo del proprio corpo, la paura di ingrassare, di vedere il proprio culo lanciarsi in picchiata verso i piedi.
Benvenuti in casa mia, vi aspettavo, volete qualcosa da bere? Certo che la volete, siete qui per questo. Volete vedere ancora tante lune sulle vostre teste, avere la forza di andare avanti velocemente – essere primi – mentre tutto il mondo attorno a voi rallenta. Sono colei che stavate cercando, la sacerdotessa del vostro desiderio più impellente: immaginate di poter avere il tempo - tutto quello che vi serve – per fare ciò che volete, nessuno potrà fermarvi, nessuno potrà impedirvi di utilizzare il vostro corpo giovane per l’eternità, da questo momento in poi. Chi può essere così stupido da non cogliere quest’occasione immediatamente, quale pazzo rinuncerebbe a quello che offro? Eppure una volta è successo, Ernest Menville - dottor Ernest Menville - ha rifiutato la pozione per vivere la sua stupida vita: una moglie, dei figli, un’età. Povero stupido dottore, vittima anche lui di questa legge del cazzo. È stato un vero peccato.

Tema: Impatto


Racconto pubblicato nell’antologia “Nave senza rotta in un mare di sogni”, edito da Del Bucchia Editore, da un’iniziativa di Pizza&Letteratura. La cornice narrativa è quella di una nave da crociera e successivo naufragio. 


La nave lentamente si avvicina alla costa. 
Lentamente, inesorabilmente, va per salutare la terraferma. 
Ma sarà un saluto troppo focoso,come un bacio insopportabilmente violento,
un lacerarsi di labbra, uno sbattere di denti contro denti.


I

Aria piena di sapori forti, voci concitate e un via vai frenetico, incantato. Camerieri, sguatteri, cuochi e aiuto cuochi che corrono, vanno e vengono. Siamo nel bel mezzo del servizio. Lo chef urla ordini, manco fosse un generale. L’unico che ha i piedi ben piantati a terra è Guido, che butta anima e sudore nel lavorare di polsi e di braccia, nel grattare frenetico quei piatti, quelle pentole, quel ferro e quella ceramica unti di sudiciume da ristorante. Martina gli passa accanto, un fulmine. Guido per un attimo freme, le si accartoccia dietro, poi la sbircia di riflesso nello specchio lurido che campeggia in cucina, mentre lei entra in scena nella grande sala da pranzo della nave.
Schiena dritta, portamento elegante, i capelli crespi raccolti in una crocchia, il vassoio fumante nell’incavo di un braccio, la mano che rilascia abilmente sul piatto la portata – quaglie in agrodolce – mentre il grasso omone si lecca i baffi, seduto sul suo trono, la fronte che gli sgocciola del sudore della digestione. Martina arriccia il naso, sudore misto a dopobarba, un fiotto disgustoso nel grande salone che odora di pulito e roba buona da mangiare. Poi di nuovo via in cucina, prende un altro vassoio dal carrello et voilà,  ancora a servire abilmente – questa volta il contorno: spinaci – al tavolo dell’omone panciuto, che si strafoga, rosso in faccia, quasi in apnea, continuando a sgocciolare. E sua moglie che spizzica compiaciuta i suoi grissini. Siamo in crociera, Vittorio, siamo in crociera!

“Arrosto al tavolo 23”. “Acqua frizzante al tavolo 37”. “Chardonnay al tavolo 7”. Via, via, sveglissima, nessun segno di fatica. Sempre sorridente con i clienti. Sempre sorridente con tutti. Martina alla mano, dolce, gentile. Perché Guido con lei si accartoccia? Perché con Francesca, per esempio, con Francesca cameriera piccola e carina, questo non succede? Gli passa accanto in questo momento, Francesca. Gli passa accanto e Guido le afferra un braccio e le picchia dolcemente la testa con le nocche. Lei prende la rincorsa e gli piazza un pugno in mezzo alla schiena. “Che scemo che sei!”. Lui fa la mossa di toccarla ancora con le mani unte di grasso e lei scappa via ridendo. Lui gode ancora per un attimo quel suo culetto tondo, quella sua schiena snella, e poi di nuovo giù a capofitto nel lavoro, ora alle prese con quel pentolone enorme, luccicante di sporco, che sembra quasi sfidarlo. Ci si infila con tutto il torace finchè non si vede più la testa. Gratta la roba appiccicata agli angoli, sente i muscoli dell’avambraccio pulsare, quelli della schiena tirare. Poi alza la testa, e c’è di nuovo Martina che gli passa accanto, veloce e sfuggente come un coniglio. Lei però stavolta si ferma un istante, lo guarda e gli sorride – deve essere proprio buffo, così, con la testa dentro il pentolone. Lui accenna un sorriso ma poi distoglie gli occhi. Il sorriso gli esce male, accartocciato. Lo chef urla: “Tavolo 14!”. Lei vola via in sala, su un braccio l’ennesimo vassoio. Lui riesce a dare un’ultima occhiata allo specchio, scrutando ancora per un attimo quella sua camminata aggraziata, quell’ancheggiare sinuoso, sottile e sensuale.

martedì 25 settembre 2012

Sez. Grandi Scrittori - Tema: Salgari


È il 25 aprile del 1911. 
Un uomo esce da casa di buon mattino, ha un oggetto in tasca. Lascia due lettere su un tavolo. Si dirige con passo pesante e svogliato verso un boschetto, ha un’aria cogitabonda. Chiude le dita attorno all’oggetto levigato nella sua tasca, quasi cercando sicurezza in quel contatto. Forse è più una speranza, un anelare una tranquillità che fino allora non aveva mai avuto e che anche per il futuro rimaneva incerta: chi può dire che cosa c’è dopo il futuro? Si affaccia alla mente il ricordo del padre, Luigi, suicida perché si credeva afflitto da una malattia incurabile. Il pugno si contrae attorno all'oggetto levigato nella tasca. Si ferma, si appoggia al tronco di un albero e prende fiato. Il pensiero va alla moglie, Ida, che per lui ha lasciato il teatro e che adesso è un fagotto urlante rinchiuso in un manicomio. Pensa ai debiti contratti per cercare di curarla, alle ore di lavoro massacrante nelle quali lo sostenevano solo le cento sigarette fumate ogni giorno e le bottiglie di marsala, oltre alla disperazione. Piange. Rivede la scena di due anni prima, quel giorno nel quale si lanciò su una spada, ferendosi invano. Spalanca la bocca in un muto grido di dolore, estrae dalla tasca la mano che regge l’oggetto. Lo maneggia, lo osserva come incantato, ne fa ruotare il manico esponendo la lama. La alza raccogliendo un barbaglio di sole, e la cala. Di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. 
Una giovane lavandaia troverà per caso il corpo in un bosco mentre andava a far legna; ha la gola e il ventre squarciati, e in mano stringe ancora il rasoio. La sciagura perseguiterà anche il resto della famiglia: sua figlia Fatima muore tisica nel 1914, nel 1922 la moglie Ida morirà nel manicomio dov’era ricoverata; nel 1931 il figlio Romero morirà suicida e nel 1936 muore il figlio Nadir, per le ferite un incidente di moto; per finire anche Omar, l’ultimo rimasto, si uccise buttandosi dal secondo piano del suo alloggio nel 1963. 


domenica 23 settembre 2012

Tema: Non lo saprai mai

«Non lo saprai mai», disse guardandosi allo specchio.
Non sapeva cosa pensare e l’unica cosa sensata che gli venne in mente di fare, fu di guardarsi allo specchio. Nulla distoglieva il suo pensiero da ciò che gli svuotava la pancia giorno dopo giorno, dimenticandosi persino della notte. Si vedeva spento. Sapete, quelle macchie che si formano su uno specchio dopo anni che lo tenete appeso al muro? Come se ci si specchiasse troppo spesso per troppo tempo, come “è tempo di cambiare questo specchio, ma non credo lo farò mai”. Adesso non aveva proprio niente da perdere perché non aveva niente neanche in tasca, era vuoto e come un albero stava fermo, mentre il gatto gli si raggomitolava sulla pancia. S’addormentò, seduto sulla sedia con la sinistra sul gatto e la destra sulla testa.

È mattina. La radiosveglia (puntata alle 11.00) dava Iggy Pop e il suo idiota, anche se lui non aveva chiuso occhio un’altra notte. «Certo che la tecnologia è proprio fenomenale –pensava- fino a vent’anni fa potevi soltanto ascoltare la radio e ciò che dava, svegliarti con la paura di sentire roba anni ’80 italiani, mentre adesso puoi persino programmare il tuo brano preferito o scegliere di svegliarti con la nona di Beethoven, grazie a questo coso minuscolo; io che diamine ci faccio ancora a letto? Forse ho voglia di parlare, da quando sei andata sembra il finale di un film muto: nero, bruciature agli angoli, la gigantesca scritta “fin” in corsivo bianco al centro e di te neanche l’ombra. Alzati e vai in bagno» Sentì squillare il telefono, rispose a quel suo fratello, quello imparziale, l’amico di sempre. Si misero d’accordo su ciò che c’era di noioso da fare durante questa bellissima giornata dedita all’ozio, -perché si sa, quando non hai un cazzo da fare è difficile che t’arrivi un miracolo che ti proponga cose simpatiche e poi Palermo è diventata una città morta, c’è spazio soltanto per i cerebrolesi tunz-tunz del sabato sera e se vuoi bere una birra meglio una bettola, io non ci metto piede in quelle gabbie di matti- tipo andare a bere una birra in una bettola, che diano musica buona almeno.


sabato 22 settembre 2012

Tema : Porcini che nascono

Dalle mie parti in questo periodo si va per funghi. Anzi mi correggo, dalle parti di mia moglie. Alto Cilento, zona prolifica del prelibato boleto o porcino come dir si voglia. 
La moglie, natia di quei luoghi, ha nel suo imprinting questa smodata passione. Io un po’ meno, ma l’accompagno molto volentieri alla ricerca. Contemplativo.
Mi piace andar per boschi la mattina presto. Adoro i profumi i colori, osservo estasiato la maestosità del creato. Ignavo son capace di sedermi su di un porcino di trenta chili. Ecco dov’è il mio problema. Non li vedo! Lei parte come un caterpillar. S’inerpica agile su per le montagne. Si getta nei rovi, lotta con i serpenti, scava, grufola, si ciba di ghiande e dopo un paio d’ore torna ululando alla luna. Incinghialita! Ricoperta di fango, spine, foglie e arbusti come un marines. In braccio un cesto stracolmo del superlativo boletus edulis, un sorriso soddisfatto stampato sul volto ed un nido di quaglia in testa. Io invece? Zero assoluto. Con gli occhi stracolmi di natura selvaggia e narici rigenerate da sniffate di puro ossigeno, non ne becco uno. Sospetto che si nascondano apposta. Dopo anni di inutili ricerche son arrivato alla conclusione che il porcino fiuta il forestiero e per “schiattiglio” non si fa cogliere da loro. Preferisce l’autoctono. Oramai l’ho capito. Il porcino è stronzo. Punto.

venerdì 21 settembre 2012

Sez. Grandi Scrittori - Tema: Jorge Luis Borges


La Biblioteca si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di scaffalature, ripiani e archivi compattabili con corridoi vasti o angusti nel mezzo. Dall'interno di ogni compattabile si vedono gli altri, a destra e a sinistra, interminabilmente, con i colori delle costole dei libri che formano arcobaleni di soli sotterranei. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è puramente casuale, nonostante più di uno studioso di biblioteconomia abbia ispirato la catalogazione e la disposizione dei volumi. Essi sono divisi in collezioni o fondi o continuazioni, e poi in numeri di collocazione e di volume, con i decimali e i bis e le seconde edizioni. Inventariazione esatta che non lascerebbe spazio a equivoci, eppure i volumi vanno spostandosi, a volte scompaiono, a volte si trovano in tutt'altra collezione, i più riottosi a lasciarsi leggere si nascondono scivolando oltre il bordo  del proprio scaffale, oltre altre decine di libri. I corridoi sarebbero identici se a fare da punti di riferimento non ci fossero, abbandonati in un angolo o sui ripiani, tesi di laurea vecchie di vent'anni (ognuna col proprio cd), mouse e stampanti in disuso, mucchi di volumi non catalogati, resti di pranzi clandestini.
Come tutti gli uomini della biblioteca, quand’ero alle prime armi io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, senza distinguere un corridoio dall’altro, un’uscita dall’altra, perché non riconoscevo i punti di riferimento; ora che non posso più percorrere quelle gallerie, affermo che la Biblioteca è interminabile. I pragmatici si ostinano a volere revisionare tutto, i romantici, come me, ripetono la sentenza: "La Biblioteca è un labirinto dagli infiniti volumi, il cui inventario è impossibile".
A ciascuna parete corrispondono tre scaffali; ciascuno scaffale contiene un numero variabile di libri - tanti quanti se ne riescono a infilare nelle collezioni più numerose, pochi volumi che cadono sistematicamente in quelle meno ricche - il cui formato passa dalle miniature ai tomi settecenteschi da quaranta centimetri; alcuni hanno poche decine di pagine, altri migliaia e giacciono distesi per la loro enorme mole; ciascuna pagina ha un numero diverso di righe che dipende dal font e dalla misura delle lettere – dal 16 dei libri per bambini al 9 di alcuni dizionari- che sono nella maggior parte dei casi nere, ma possono essere di qualsiasi colore nelle definizioni o nei titoli e bombate, ritoccate e adattate alla grafica nelle copertine. 

giovedì 20 settembre 2012

Sez. Grandi Scrittori - Italo Calvino - Le città invisibili: Eunia

Svolgimento

Dopo cinque giorni di cammino si arriva a Eunia, città di specchio, dove tutte le grandi emozioni sono vissute all’infinito. Tutto è fatto di specchi: le case, gli uffici, le statue, ma anche tutto ciò che si trova dentro ogni casa è costruita in modo da riflettere il mondo davanti a sé, e così tavoli, mobili, pareti, vasche da bagno, vasi, armadi, libri; e tutti questi specchi non vengono utilizzati per vantarsi della propria figura, per ammirare la propria immagine, o al contrario per moltiplicarne i difetti, ma vengono utilizzati per ingabbiare le emozioni ogni volta che se ne vivono di particolarmente forti.
Quando gli abitanti di Eunia provano forti emozioni, gli specchi riflettono e memorizzano l’evento che le ha causate; e così è possibile rivedere uomini e donne che si amano e si dicono frasi d’amore, amicizie che nascono e scene di persone che muoiono, ridono, litigano e piangono. Le coppie ritrovano le emozioni perse dopo anni, gli amici rivivono il loro primo abbraccio, i nemici rinnovano l’odio e i vecchi paracadutisti la libertà provata in mezzo alle nuvole. Le persone che abitano a Eunia sono felici di rivivere le emozioni guardandosi allo specchio, e così continuano, incatenate dentro i propri ricordi a guardarsi e riguardarsi. E quando chiedi il perché di tutto questo, loro ti rispondono in questo modo: <<l’uomo è sempre alla ricerca di grandi emozioni, e quando queste arrivano egli è impreparato a viverle, e allora è meglio emozionarsi quando si è pronti, ogni volta che si vuole>>.

mercoledì 19 settembre 2012

Sez. Attrici - Tema: Tina Pica


Se devi metterti a cucinare, dimentica la fretta. Che i pomodori la sentono e non si lasciano peppïà come si deve. Nisciuno te corre aret e a chi ti sta davanti augura buona corsa. E poi la mattina na donna cumme me, appicciata la candela alla Madonna che ha più da fare? Prima ci stava il teatro. Ore e ore a sentì De Filippo che ci raccontava la sua Filumena. E poi altrettante per rifarla uguale uguale. E il tempo perso con De Sica manco lo conto: "C'hai la faccia per far cinema" diceva, così mi son trovata davanti n'altro altarino a fingermi bigotta ed eterna zitella. Tra una scena e l'altra c'avevo il tempo d'un rosario intero. Vincenzo quando mi vedeva sorrideva contento. Non mi ha mai sposata, così per tutti son sempre stata na' vedova. Altro che.
Il segreto per far peppiare la salsa sta – oltre che nel tenere la fiamma piuttosto bassa - nel non turare completamente con il coperchio la bocca della pentola, ma nel poggiarlo su di un lato mentre, in direzione opposta, occorre poggiare il coperchio non sul bordo della pentola, ma sul cucchiaio di legno posto di traverso l’imboccatura, per modo che si crei una piccola circolazione d’aria che impedisca alla salsa di attingere forza dal fuoco e le impedisca di precipitare nel bollore cosa che rovinerebbe tutta la faccenda.
Oggi che sto a casa di Giuseppe, mio nipote, su al Vomero, nessuno più mi cerca: ogni tanto qualcuno mi viene a domandare di Fabrizi o Taranto. Qualche studente che vuole farci na' ricerca. E io ascolto e sorrido. Che c'hanno mai da ricercà mi son sempre chiesta. E allora racconto pure a loro il segreto del ragù napoletano: col lardo di pancia e  il rosso secco. 
Bella non lo son mai stata, che dice? A quelle belle non ci fan fare i ruoli che faccio io, che facevo io. Per cui meglio così. Nel ragù ci deve stare la cipolla vecchia per dare sapore, per alzarsi dal piatto col sorriso sul labbro.
Che altro ve devo raccontà? Facitene salute!

EF

Tema : Bianco il pavimento (Mi sento designificato *2)


Bianco il pavimento. Passano le valige degli uomini d’affari, i bisturi dei migliori chirurghi plastici, turisti grassi, gente e ancora gente si lancia sul buffet. 

È quel mangiare compulsivo tipico di chi vuole saltare il pranzo. Collezionare bricchi, uova, salsicce yogurt, frutta, cereali nello stesso piatto per lo stesso stomaco. Le hostess osservano il buffet come animali in cattività. Le cinesi si schiantano contro le colonne del wow hotel: è colpa del jet leg. Camerieri vigilano attentamente contro la pratica abusata del take away. L’ascensore scende e sale dal centesimo piano al primo intervallando le pause per i passaggi degli uomini con il carrello. Primo piano all’americana centoventottesimo piano, è lo stesso. Buongiorno signora triste, l’albergo si riempie si vuota: è la stessa balena che mangia il plancton. 

Marco e Irene scendono assonnati, piatti pieni per grandi cervelli. 

Troppe vertigini questa modernità ci vuole una botta di tradizione per poter stare bene. Spezie curcuma narghilè una favola da una mille e una notte tascabile, in una sola parola il grand bazar di Istanbul. Una ragnatela di Persepoli si snoda. 

Marco: «come va con vaccini?» 


«Non c’è male. Senti questa vaniglia bourbon. » 
« Attenta a quelli ci fissano. »
«Ah tutto tranquillo hanno in testa il fez. Sono religiosi. Il fez l’ho studiato ieri è: un antico copricapo turco, serve per distinguere i signori altolocati da quelli non. È una questione di estrazione sociale.»
«Il curcuma vien usato come colorante.»
«Del dragoncello che uso se ne fa?»
«Ah quello con la menta è per il pesce. Le spezie sono l’essenza della vita danno gusto al momento giusto. È un ottima prospettiva.» 
Viagra turco è il the. Le strade di Istanbul sono tutte in salita piene di gente che si affanna con cose sulle spalle. Ogni quartiere vende articoli diversi. È un luna park antropologico, un continuo clik e annotare movimenti e colori persone.

martedì 18 settembre 2012

Sez. Attrici - Tema: Liz Taylor

(Chi ha paura di Virginia Woolf?  rewriting)



Quel pomeriggio la signora era svaccata sul divano, le gambe larghe – lo so, una cameriera non dovrebbe dire cose così -, addosso una vestaglietta a righe sgualcita, sotto come sua madre l’ha fatta, e sul tavolino il bicchiere vuoto, e la bottiglia per terra;  in mano un copione, quello di Chi ha paura di Virginia Woolf. Il signor Burton invece era al piano di sopra, nel suo studiolo, stranamente tranquillo (s’imbottiva in quel periodo, il dottore gli aveva prescritto un nuovo farmaco) – ovviamente a lei non garbava che lui fosse così assente, lo voleva sempre attorno, anche solo per insultarlo, tenerlo in tensione: pretendeva  che schioppettasse, una padellata di anelli di calamaro.
La signora cominciò ad urlare per richiamare l’attenzione del signor Burton, fogna! pantano! ehi palude!, ma il signor Burton faceva finta di non ascoltarla – cosa impossibile, la voce della signora sa essere un trapano e poi il soggiorno e lo studiolo sono privi di porte e comunicano attraverso la tromba della scala, ehi fogna? pantano?, il signor Burton dava fondo a tutta la sua pazienza per non risponderle - in questi casi mette le mani alle orecchie, chiude gli occhi, persino la testa sotto un cuscino -, ma la signora continuava a chiamarlo, fogna, pantano, palude, non aveva pace la signora, lo voleva giù, da lei, a scodinzolare, a grattarle la schiena, a dirle va tutto bene, Elisabeth? va tutto bene?, a prenderle il ghiaccio, a riempirle il bicchiere – e non che non potessi  farlo io, lei voleva lui, le avessi dato io il ghiaccio avrebbe detto non mi serve, rimettilo in frigo – ma lei lo voleva soggiogato, strisciante, ad una punta del divano a massaggiarle le caviglie, e intanto pantano, palude, ehi, paludina?


lunedì 17 settembre 2012

Tema: Scrivi una cosa qualsiasi

Di quella sera che.

Di quella sera che mi dissero di guardare indietro e io feci una risata così strana che, tentando di ricordarmi la forma della mia bocca, pensai a scrivere quattro boiate e a chiudermi un attimino dentro al mio ufficio. Di quella sera che stasera mi stai sul cazzo e anche se fosse non guardarei indietro neanche se mi pagassi, perché a guardarsi dietro uno ci riesce soltanto se ha uno specchio e perché troppo tempo è passato dietro ai gusti spettrali delle persone e mi dirai che tutta questa tiritera è da folli e io ti risponderò che sei comunque una di quelle persone che amo di più e quindi ti dedico questo estratto. Di quella sera che non ne posso più di pensare a come se ne è andata via, mentre stavo solo ad una festa e mi scolai quasi tre bottiglie di vino per farmi passare i pensieri. Di quella sera che restai come un fesso all'aeroporto a guardare gli aerei con dei biglietti in una mano e l'altra mano aperta come quando apri il cofano dell'auto per vedere cos'è che non va. Di quella sera che in spiaggia ero più che andato e facevo gli angeli sulla sabbia, indossando un accappatoio, circa quattro anni fa. Di quella sera che ho ascoltato dei codardi e cantai tutta la notte delle loro gesta. Di quella sera che le parole riempivano il bicchiere. Di quella sera che come stasera guardai indietro e diventai quello che vedrei adesso guardando indietro, adesso che sono l'uomo più buono del mondo, amico di tutti e di nessuno, amico mio. Di questa sera che ho in tilt il cervello perché non so se guardare indietro o meno e se ne vale la pena. Cambiare.

Sez. Attrici - Tema: Era fuoco


«Adesso vedrai che mi trasformo in cane. Col mio naso di cane ti annuso, ti scovo, ti trovo. E vedrai che ti trovo. Coi mie denti ti afferro e non ti lascio andare più. E sarò tutta cane. Vedrai se lo sarò!» e lo dice tutto d’un fiato togliendosi il cerone bianco dal viso e le labbra a cuore e il pallino finto-naso e quei quattro raggi-sopracciglia nere. E ride, con stridore rauco di voce di petto mentre il cancro le mangia i polmoni. Tirando da una sigaretta ride «io, con questi occhi che mi hanno disegnato, che non sono donna ma mezzo clown e mezza bambina. Federico ti immagini io cane? Oddio che ridere! fallirei» e Federico ad amarla dalla sua poltrona, immobile lui con un sorriso onnisciente, gli occhi che sono due buchi in confronto a quello scricciolo di clown. «No Federico, basta. Non sognarmi più dentro a vestiti di personaggi che vagano dentro a quella tua testa troppo grande per me. Ti ho dato tanto, tutto quello che avevo, ed io ti ho amato e ti amo, ma non sognarmi più, sono stanca. Mi piace sorprenderti Federico e lo faccio ogni giorno e mi trucco ogni mattina e tiro fuori quello che c’è nella tua testa senza che tu mi dica niente. Lo tiro fuori io il tuo mondo e te lo faccio vedere. E non sono più Giulietta. Sono la tua estensione, Federico, il tuo prolungamento. Tutto quello che tu non sei io lo sono. Sono la membrana che ti separa dal mondo, che è piccolo, Federico, troppo piccolo per te. E per me con te». Federico fa un cenno con la mano destra e rotea gli occhi verso sinistra: la finestra, guai a tenerla chiusa! Giulietta si avvia lentamente a spalancarla, le dispiace lasciar disperdere il calore raccolto in casa, non le piace lasciar disperdere i loro umori al vento. Vorrebbe raccoglierli tutti gli umori, dentro a dei barattoli e porli in credenza. Spalancando le imposte un sussulto scuote quel corpicino esile «Visto? Fa freddo Federico. Copriti bene dai!». Avevano imparato a conoscersi dopo tutti quegli anni insieme e non occorrevano parole tra Federico e Giulietta. Ma a quella chi la tiene, chi è capace di farla stare zitta? E parla e parla, il fuoco dentro.
E dopo avere arso insieme e fatto ardere il mondo intero si spengono insieme, a distanza di cinque mesi l’uno dall'altra.

VB

domenica 16 settembre 2012

Tema: Primo giorno di scuola


Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Mamme fighissime truccatissime con enormi occhiali scuri anche se veniva giù il diluvio universale. Ho visto bimbi con in spalla zaini enormi (contenenti chissà cosa) modello sbarco in Normandia. Ho visto papà impazziti con videocamere, fotocamere, hd, full hd, reflex, compact, iphone, ipad, arrampicarsi sugli alberi pur d'immortalare il proprio pargolo varcare l'oblio scolastico. Ho visto bimbi angosciati, con gli occhi spenti e persi chiedersi che cosa ci faccio io qua? fino a ieri scavavo buche in spiaggia, porcapalettaaaa!...e tutto questo andrà perduto come lacrime nella nutella. E poi si resta soli. Per la prima volta le loro vite si separono. Le porte si chiudono. Si va in classe. Amen.
La mamma fighissima iperaccessoriata pensa felice che finalmente inizia una nuova vita. Libera! Sono finalmente libera! Tolto il pargolo dalle palle, mal che vada per mezza giornata, e fugge come una libellula impazzita e sculettante dall’estetista.Anche le libellule sculettano.

sabato 15 settembre 2012

Tema: Pasticciata Siciliana (IV di IV)


L’avrebbe fatto stasera? Finalmente l’avrebbe fatto? Avrebbe fatto finalmente il salto nel vuoto, ci avrebbe provato con la Grande Strafiga Stupida Tettona che lo ammaliava con la superficialità dei suoi discorsi, l’esplosività del suo corpo? Marco uscì dal ristorante pensando che si, si, si cazzo, questa era la sera buona. La spinta gliel’aveva data il tizio di trent’anni che gli aveva indicato col dito, con un gesto insieme teatrale e magniloquento, onesto e magnifico, che gli aveva indicato col dito i vuoti delle sue stempiature e della sua vita. La spinta gliel’avevano dato i suoi Sogni Infranti. Una meraviglia.


Stefania. Una meraviglia. Dentro la sua Seat Arosa giallina, sua per modo di dire, dato lo zero totale delle sue entrate da qualche mese a questa parte, e l’intestazione in nome del padre, dentro la sua Seat Arosa giallina c’era ora Stefania, tutta provocante nel suo maglioncino rosso, nei suoi jeans stretti, nelle sue scarpe da tennis. Provocante, ammaliante, tremendamente attraente nella sua innocente sensualità. 


Carte di gelato svolazzanti, il bicchiere della bibita caduto per terra, i tappetini luridi di terriccio e minuscole cartacce, il cruscotto rattoppato con lo scotch, i vetri appannati. Lì, sull’umido dei fiati condensati, Marco aveva disegnato con le dita tremanti un tondo e tre segnetti all’interno. Una faccina triste. Una cosa così idiota che quasi ne provava vergogna. Ma lei aveva riso, e questa era ciò che contava. Gli aveva piantato in faccia i suoi due grandi occhi celesti e gli aveva chiesto perché mai quella faccina era triste.

Il suo corpo, nella risata, sobbalzò tutto. Lui sentì distintamente il fiotto caldo di profumo che sprigionarono quei due suoi seni. Seni enormi, mamma mia, seni enormi in cui avrebbe voluto affondare, perdersi dentro, annientarsi. Sentì che se ne stavano là, gioiosi e placidi, maestosi e materni. Sentì le sue gambe poggiate sul cruscotto, piegate e aggraziate, che ogni tanto cambiavano posizione. Sentì tutto il corpo di lei, florido e nello sbocco della gioventù, che sembrava invitarlo ad una più calda conoscenza.  


venerdì 14 settembre 2012

Tema: Felice giorno degli uccelli


Svolgimento

Lo sento, il cimento ricorrente si avvicina di nuovo. Riconoscerei questa precisa nota di cafard anche se avessi appena bevuto un bel bicchierone di decotto di acacia, assenzio e stramonio con quella spruzzatina di dopamina che fa sempre bene. Tu sei lì nell’afa della canicola e senti la bimba dei vicini che gioca al compleanno con la Barbie e le canta Eppi berdei; improvvisamente un ricordo ti si affaccia, investendoti con la forza di un treno in corsa. Sei in una stanza con le tapparelle mezzo abbassate per difendersi dalla battuta del sole del secondo piano di una vecchia casa; la stanza è una cucina, con dei mobili in formica bianca e finto legno scuro, col piano verde bottiglia e le maniglie trapezoidali nere. La tavola è apparecchiata con una tovaglia di tela grossa, rosa chiaro con una fascia più scura, e piatti di ceramica bianca; ai due lati siedono un uomo e una donna, in mezzo un bambino. La donna si alza e prende qualche cosa dal pensile d’angolo: è una piccola torta sulla quale ci sono tre caramelle tonde di gelatina e tre candeline. Posa il dolce sul tavolo e le accende, per poi incitare il bimbo a soffiare per spegnerle. Il piccolo non si accorge che lei soffia assieme a lui, né si rende bene conto di che cosa dovrebbe succedere perché è riuscito a spegnerle in un colpo solo: aspetta solo di mangiare la sua fetta di torta, senza sapere che cosa sia un desiderio. Forse. È il tuo primo ricordo in assoluto; riesci a evocarne gli odori, i suoni, i colori al punto che potresti perfino toccare i suoni o leccare i colori. 
Un istante dopo vedi un ragazzino imbarazzato, non sorride perché gli manca un incisivo e forse un po’ perché è avvolto in un maglione di lana mélange di un improbabile color cacca di gatto. È circondato da parenti festanti, ha davanti una torta con su dei confetti disposti a fiore e delle candeline; la consorteria parentale ulula perché le spenga, lui lo fa controvoglia perché sa che subito dopo qualche simpaticone provvederà a tirargli le orecchie ritualmente; quelle orecchie a sventola che cerca sempre di nascondere sotto i capelli perché lo fanno sentire brutto, goffo, deriso. 

giovedì 13 settembre 2012

Tema: un ricordo

Svolgimento

Rosse talvolta color tortora. Non capisco come mai me le comprarono ambedue. Non si può. Tutti i capricci esauditi. Ero davanti ad uno scoglio.
La domenica pomeriggio andavamo al cinema, avevo un maglione aragosta. Il colore era aragosta intenso, non salmone, né fucsia. Aragosta. Vellutato come le mie guance, tonde, rosate e poi arrossate dal calore  della lana, degli ambienti affollati, al buio di sale cinematografiche.
Le risse dei gladiatori, i ruggiti delle belve, i cristiani crocefissi mentre fuochi bruciavano dappertutto: bracieri, tra le croci dei condannati, davanti agli altari degli dei immortali. I dialoghi degli attori della celluloide, i film comici e i film d'epoca romana, nient'altro. Se cambiava il genere restavo fuori dai dialoghi e dalla storia. E la risata di mio padre faceva eco a tutto. Alle risate e anche ai momenti di crisi, alle lacrime, ai capricci, ma era difficile non esserne contagiati.
Tenevo sette anni. Camminavo con scarpette di vernice, talvolta rosse, talvolta color tortora. Avevano un pon pon di lapin in tinta proprio al centro. Era il tempo delle scarpette e delle mutandine di pizzo, velate davanti e affollate di merletti dietro, rendendo tanto eleganti quelle bambine di pizzi e rossetti rubati. Di smalti sulle dita piccole e unghia microscopiche, nastri, treccine strette e tirate su da fiocchi enormi.
Sono davanti allo scoglio. Ha la forma esatta che mi aspetto. La solita e se cerco di capire perchè mi sia tanto familiare non ho risposte da darmi. Mi è familiare. Ha una cresta tozza che si inalbera sulla parte più alta, poi è strozzato quasi al centro. Sono tante scaglie laviche levigate che si susseguono.
L'aria ha il sentore di mare, di gabbiani, di pesci andati a male, di escrementi lasciati colare sullo scuro marrone arroventato dal sole.
Lo scoglio è affondato, adagiato su fondale alto quanto basta, di sabbia, e acqua chiarissima.
Aspiro l' odore forte di mare, intenso e misto a alghe, gabbiani ed escrementi. E mi porto intorno al versante nord. 
Lì un' insenatura piccola, suggestiva, tempestata da piccoli molluschi che ne imbiancano il bordo, da alghe, da muschi.
Immergersi è una festa di colori, l'azzurro dell'acqua, la miriade di pesci: azzurri, verdi, giallo-verdi, sole e ombre che dall'alto proiettano sul fondo la rupe sormontata dalla cresta rocciosa. Poi dai ricordi emerge il volto di mio padre e la sua spazzola di capelli ricci, morbidi, neri, come un colbacco sulla sommità della testa. I suoi capelli sono la sommità dello scoglio. Ne aspiro il profumo, sono a casa.


mercoledì 12 settembre 2012

Tema : Mi sento designificato *1



I bianchi in vacanza.
I muezzin rincorrono la preghiera nella sera. La luna copre tutto Istanbul si avvolge di paschimine. Irene e Marco salgono sui tetti.

La cena viene servita con routine, Allah al bar. Marco annota sulla Moleskine l’equazione della valuta con le lire turche.
I bianchi in vacanza sono antropologi, alloggiano in un hotel cinque stelle dato dalla compagnia area e si lamentano di continuo di quanto sia un non- luogo: aeroporto accanto hotel lucido spersonalizzante.
I bianchi sono antropologi: usano lo scalo a Istanbul per riprendersi dalla modernità. Le donne turche indossano il chador, le più sexy il burqa. Gli uomini sono liberi di vestire all’occidentale. Profumano di grigliata questi turchi.
Irene segna sulla agenda:

“Istanbul, luglio duemiaedodici.
Sarà perché è il periodo del ramadan ma questi turchi puzzano proprio di grigliata. E poi non smettono mai di cantare. Le donne arabe non sono emancipate, inizio a vedere un settore di schismogenesi. La modernità in Turchia non ha abolito la pena di morte.”
Marco, macchina fotografica come terzo occhio, cattura la preghiera nella moschea blu. Silenzio e clik.
Clik e silenzio.
Che ne sarà di noi. Gli uomini pregano da un lato, i bambini corrono. Nemmeno Allah li fermerà.
Clik e un passo, uno sguardo in alto, la moschea si spoglia tassello per tassello.
Marco si piega e respira il tempo ingessato. Irene sale le scale, è il posto riservato alle donne. Solo con il velo la moschea si vede dall’alto.
Marco: «Era da tanto tempo che non mi prendevo una vacanza. Rashid, carica il narghilè.» Fuma e respira lentamente come se nulla fosse. Una donna si addormenta al tavolo, famiglie tornano satolle dal ramadan. I gatti turchi presiedono la situazione saltando sui tetti.


Tema: Pasticciata Siciliana (III di IV)


Intanto si rifece vivo lo squallore fatto persona, il trentenne emaciato, alto e magro come un palo in disuso, patetiche stempiature, occhiali spessi e sporchi, acne rivoltante. Si rifece vivo, tutto in visibilio dopo avere baciato entrambe le guance, affondando estaticamente le labbra umide sulle guance profumate e perfettamente rasate dell’Onorevole. “Sei venuto qua solo per mangiare?” gli chiese, accostandosi con tono ammiccante. Gli occhi gli si erano fatti stretti come quelli di un topino. “E per cosa, sennò?” gli rispose, Marco, che tra l’altro era riuscito ad afferrare a malapena un paio di olivette. Lo snobismo del cazzo, da che mondo è mondo, lascia morti di fame. “Dai, non fare quello che non capisce. Sei venuto per parlare con Lui, non è vero?”. E partì il duello. “Sono stato invitato” ribattè allora Marco, con tono il più neutro possibile. “Invitato? – lui cominciò ad innervosirsi – Cioè, come si invitano i parenti o gli amici ad una festa di compleanno?”. “Qualcosa del genere”. “Ok, ma non ci devi parlare, con Lui?”. La sua voce si faceva progressivamente più stridula, si contorceva, si seccava, come un fiore che veniva crudelmente torturato da un raggio laser. Intanto Marco aveva assunto il suo sguardo più neutro possibile, il tono più vago e ipocrita, controllo siderale, la narice arricciata innaturalmente. “Scusa, non capisco, cosa dovrei dirgli, a Lui?”. Era sadismo puro, Marco lo conosceva da tempo. Era stato un ragazzo interessante, a volte perfino bello. Aveva avuto la testa piena di sogni, una volta. Studiava, leggeva, si informava, voleva viaggiare, aprirsi, conoscere il mondo. Aveva avuto negli occhi una luce speciale, una volta. Ma era invecchiato anzitempo, adesso era sfatto, svuotato, straziato dai suoi trent’anni, dalla sua disoccupazione e da chissàchealtro. “Cosa dovrei dirgli, a lui? – ripetè Marco, gelido – Io neanche volevo venirci qui, stasera. Ma vabbè, mi sono detto, mangio un po’ a scrocco e me ne vado subito. Ti pare, stasera ho altre cose da fare. Come me ne fotte a me di andare appresso a sti cazzo di politicanti”. Si zittì, lesse un sms appena arrivato. Sorrise.  


martedì 11 settembre 2012

Tema: Corri!

Svolgimento


Prima di arrivare al centro del collo dell’uomo che stava in mezzo e prima che quest’ultimo si accasciasse a terra preda degli spasmi e del sangue che gli riempiva la gola, il pallino di piombo aveva forato l’aria per mezzo metro (sarebbe stato impossibile, da quella distanza, mancare l’obiettivo, anche per un tiratore poco esperto). Il secondo colpo non fu così preciso ma riuscì comunque a strappare alcuni tendini della gamba che tenevano il muscolo legato all’osso. Nei secondi successivi ai colpi, i due uomini riuscirono a correre, inciampare, rialzarsi e correre ancora; la gamba continuò a sanguinare, i rami sporgenti strappavano i brandelli di carne pendula e non si muovevano né si spezzavano. Dietro di loro, scarponi di pelle nuovi rompevano radici e affondavano in pozze di fango e sangue. Correvano. Inseguivano.

Un altro sparo, un tonfo, poi il silenzio.

- Ho paura, sto continuando a sanguinare, aiutami ti prego.
- Stai calmo, se ti agiti quello torna e ci ammazza. Chi diavolo è questo? Chi  l’ha portato?
- Non lo so, i ragazzi dicevano di averlo conosciuto al bar, ha accettato subito di venire, diceva di essere un esperto, che male! Aiutami.
- Sta’ zitto che quello ci sente, mi era sembrato un ragazzo a posto,   silenzioso sì, ma ho pensato fosse solo timido.
- Non la sento, non sento più la gamba.
- Shh, sento dei rumori, non ti muovere.

Il ragazzo silenzioso lo era, ma solo perché il piano andava pensato, gestito alla perfezione, il messaggio doveva essere chiaro, forte, avrebbe dovuto tuonare in mezzo al bosco e nei paesini attorno, lo avrebbero sentito a chilometri di distanza, nelle grandi città, udito da tutti, e doveva avere il colore del sangue, innocente oppure no, non importava. Avvicinarli era stato semplice, era bastato vestirsi come loro, offrire una birra al primo, vantarsi di essere entrato nei boschi con lo zaino vuoto ed esserne uscito carico di corpi dalle teste penzolanti, così tanti che di tutta quella carne una parte era risultata inutile e quindi lasciata ai cani.


lunedì 10 settembre 2012

Tema: Vale di Francia

La chiamavano "Vale di Francia" non perché fosse francese ma perché qualcosa in lei ricordava l'esser francese: la lingua francese, la cultura francese, la pittura francese, il vino francese e la poesia francese. Lei, a onor del vero, aveva vissuto per qualche tempo in Francia e nelle Fiandre Francesi eppure, era già francese prima ancora di aver poggiato il vezzoso piedino sulla pista dell'aeroporto di Orly. Lei non si sentiva francese: quello che sentiva era solo una forte attrazione e un grande amore per la Francia di un tempo, per le campagne e le foreste francesi, per il sangue ribelle francese, per la lingua francese, per le frangettine francesi e per quei visini alla Sophie Marceau del tempo delle Mele. ma questo esser francese... francese sì, ma di dove? Di Bretagna? Di Provenza? Oppure di Cornovaglia? Perché sebbene lei abbia vissuto a Parigi, tutti i francesi concordano che la Francia non è Parigi, sebbene i parigini stessi ne siano fermamente convinti. I parigini poi... Non esistono più "parigini". I veri parigini vivono fuori Parigi. Alcuni di loro hanno trovato sistemazione presso la campagna dell'ile de France, ma solo presso quei villaggi in prossimità della stazione. Sì perché loro, i parigini, la mattina si svegliano alle cinque: alle sei passa il teno che li porterà a Parigi e lì la metrò che li porterà al lavoro. Poi di nuovo la metrò, poi di nuovo il treno e poi casa. "Métro, b(o)ureau, dodò"* dicono i francesi o meglio, i parigini. I parigini sono stati sfrattati da Parigi: la nouvelle vague non fu un'ondata di freschezza no, fu un vero e proprio Tzunami per quella città! Da quando a Godard venne in testa di creare "Parigi" ecco che tutto il mondo ha voluto viverci, cambiandola profondamente, rendendola irriconoscibile. Sì perché la Parigi di Godard era ancora Parigi. Poi arrivò lui e Parigi cessò di esistere se non nei sogni dei poco radical e molto chic di tutto il mondo. Parigi ha cambiato volto tante volte eppure vi è un filo conduttore che li collega tutti.


Sezione Attrici - Tema: La bellissima

Un tailleur nero e la luce dietro. Al buio come un'ombra cinese forse anch'io potrei, ad esempio buttare giù i capelli e mettere su una coscia, che so...ruotare i capelli velocemente ora di qua ora di là e poi indietro fino a sciogliere via la giacca come una pelle. Ma alla luce quella morbida linea delle labbra da bambola, carnose, quelle spalle ampie e il seno, l'apertura alare delle gambe seconda solo a quella delle braccia e bionda, biondissima, alla luce no, non è facile copiarla.

- Marmellata signorina?-
- Veramente ghiaccio-
- Ghiaccio- E sorride.
Bionda, che dice sempre si. Bambola/oggetto, bambina esperta o donna ingenua, il sorriso non  torbido, gli altissimi giri di vortice in viti sempre più strette e cadute libere senza paracadute.

Nel vortice John Gray eppure perde la donna della sua vita. Forse vuole di più. Ha sempre voluto di più e non si accontenta della pazienza di lei, della ingenua sensualità, della passione. Della passione ingenua  di una bimba che esegue i suoi giochi. E la perde.
Ha voluto di più. E non corre, non corre, né sale le scale di corsa per prenderla tra le braccia e fermarla con forza contro un muro e gridarle: non è come credi, non è come credi.



sabato 8 settembre 2012

Tema: Diario di Viaggio




Non ricordo i miei ultimi scritti,
le date,
l'accozzaglia di parole che mettevo 
insieme tra un viaggio e l' altro.
Anche se poco presente vi leggo,
preparo lo zaino,
fumo una canna quando capita
e mi bevo una birra.
Sono appena rientrato da quota duemila,
montagne che si spaccavano
e lingue di neve che sparivano.
Qualche arrampicata folle
e la gestione di un rifugio.
La bella ragazza russa che continua a scrivermi,
il committente  inglese che mi chiede
opere in legno a cui non risponderò.
La richiesta di collaborazione con
il trafficante di droga del Nicaragua
per la costruzione del villaggio turistico.
L'amico miliardario che ti viene a prendere in
porsche e ti racconta i suoi Problemi.
Non mi faccio mancare le cose inutili!
Nel mentre cerco un biglietto
a buon prezzo per la Scozia
Anche se dovrei ripassare per l' Irlanda,
pare che il fantasma senta la mia mancanza.
Il castello sta crollando per incuria 
e a me scappa un
MAVAFFA....LO

Ella Bix

Tema: Pasticciata Siciliana (II di IV)



Bicchierata sto cazzo. Quello era un vero e proprio banchetto. Banchetto un po’ alla buona, certo, perchè si stava sempre nel paesello buco di culo di cinquemila anime e certo, ai paesani non piacciono certo le cose troppo chic, però diamine, c’era il ben di Dio, su quei tavoli. Tutto era stato adibito alla perfezione. Una perfetta riproposizione dell’Albero della Cuccugna. Stessi umori, stesse facce fameliche, stessa ingordigia da naufragi. Lì dentro era tutto un ruminare di mascelle, uno sbattacchiare di pappagorge, uno strabordare di panze e corpi mollacchi. 


Attorno ai tavoli del buffet, tovaglie a quadrettoni rossi come a riproporre chissà quale sagra rustica, attorno ai tavoli del buffet gli avventori erano perlopiù gente bruttissima e oscenamente grassa, dal colorito malarico e dalle pesanti occhiaie intartarate di ottusa furbizia e bieco rancore. Quasi tutti erano del tipo umano malaticcio. Flaccido, grosso e malaticcio. Molti si avvicinavano al mito dello straccione obeso, quello che ogni giorno s’ingozza di merce scadente rigorosamente sottomarca, inferni di coloranti, conservanti e grassi saturi. Animali da superdiscount, arrampicatori di scaffali inumani, schiavi del carrello carico di schifezze, disperati divoratori di immonde merendine, salumi, paste, lardi, cioccolatini grondanti tossine e grassi residui di Occidente alla deriva. 


venerdì 7 settembre 2012

Sez. Attrici - Tema: Marilyn Monroe

Ore 4.30 Pm. 

Bert Stern passeggia nervosamente tra le stanze della suite dell’hotel Bel-Air. 

Nella camera da letto è tutto pronto: il letto è rifatto con un lenzuolo bianco dal risvolto plissettato bordato da un filo di pizzo, sul tavolo vino rosso e bicchieri di cristallo. Non gli è sembrato vero quando lei gli ha detto sì e ora che l’aspetta gli sembra di aver sognato tutto. Continua a ripetersi di stare calmo, che è normale il ritardo poi si dice che non verrà, poi torna a ripetersi che è normale il ritardo in un loop mentale che dura da cinque ore. 
Poi di colpo lei è lì e satura lo spazio: biondissima, eyeliner nero e labbra cremisi. Più bella più di quanto l’avesse immaginata, così vitale e disponibile che l’angoscia dell’attesa gli sembra dovuta. 
- Scusami tanto – gli sussurra con la voce che l’accarezza – è che in questo periodo dormo così poco che Eunice non ha voluto svegliarmi per tempo. Ora però mi faccio perdonare, va bene? - e scalcia via le scarpe bianche col tacco a spillo. 
Sul fondo del letto Bert ha ammucchiato delle sciarpe di chiffon trasparenti, sul tavolo da toeletta ha appoggiato delle collane e fiori di stoffa. Le indica la camera da letto. 
- Con cosa ti andrebbe di cominciare? – chiede. 
Lei si guarda intorno sorpresa e batte le mani felice. Ignora i vestiti avvolti nel cellophane appesi ordinatamente sulla rella. Si avvicina alla toeletta e fruga tra le collane. Sposta perle e strass e tira fuori quella con i cristalli gialli. Si appoggia dietro l’orecchio una rosa di stoffa, si guarda allo specchio fa una smorfia e la lascia cadere. Poi si avvicina al letto e prende prima la sciarpa arancione, la lancia in aria e la lascia fluttuare a terra. Scarta quella rosa e sceglie quella a righe. Ora sta sorridendo anche con gli occhi. 


mercoledì 5 settembre 2012

Tema: Enodia


Sognava di correre rapido in un prato nelle ore del tardo pomeriggio, con mosse poco aggraziate saltava di quando in quando una radice affiorante o una pietra, e in quei brevi istanti gli sembrava quasi di volare sopra i fiori degli asfodeli che punteggiavano la distesa d’erba. 

Si accorse di una donna, in piedi vicino a un gruppetto di alberi, che guardava nella sua direzione sorridendo in modo appena accennato. Indossava una tunica candida, trattenuta da una cintura ornata da un medaglione di onice sul quale era incisa una strana figura sinuosa e trilobata con al centro una sorta di stella o di fiore; ai piedi indossava dei calzari che sembravano d’argento, e sulle spalle un mantello di colore giallo rossiccio.

La vide altre volte nel corso degli anni, ancora in quel prato oppure una volta sul limitare di un bosco in una notte di luna piena, nel buio reggeva due torce per illuminarsi il cammino e i suoi sandali sembravano scintillare alla luce tremolante delle fiamme.
S’incontrarono ancora, lei non era sola: la accompagnavano altre due donne, una fanciulla dallo sguardo penetrante e dall'atteggiamento distaccato e una donna anziana e rubiconda dai boccoli grigio ferro e dalle labbra piene. Quella volta lei indossava una lunga gonna nera, una camicetta bianca incrostata di pizzi e un foulard rosso a grandi bolli bianchi e neri annodato a trattenerle i capelli corvini, le cocche le scendevano sulla spalla destra. Lo chiamò, dicendogli di avvicinarsi senza temere nulla; gli sorrise con un sorriso luminoso quanto una falce di luna in una notte di agosto; gli mise le mani sulle spalle e si fece grande mentre lui si faceva piccolo, da sotto la gonna spuntarono due zampe lupine e lei lo consacrò. Lui ebbe paura, si ritrasse e… si smarrì.

lunedì 3 settembre 2012

Tema: Pasticciata Siciliana (I di IV)



Non puoi non andarci non puoi non andarci non puoi non andarci. 
Marco Fantesca e suo padre, che gli si avvicina sventolando quel suo mantra di negazioni. Non puoi non andarci, figlio mio adorato, non puoi non andarci stasera, è importantissimo. “È un’opportunità grossissima, figlio mio, finiscila di fare il difficile. Non lo capisci che certe occasioni non si possono mancare? Certo, non c’è niente di sicuro. Non mi ha dato niente di sicuro, ma bisogna provarci! Bisogna cogliere tutte le occasioni come queste!”.

Offuscato dalle parole del padre, Marco annuiva con la sua solita faccia da saputello snob, adolescente difficile, irrecuperabile testainaria, ribelle senza sbocco. “Figlio mio, quando la finirai di essere così? Quando capirai che bisogna calare la testa, bisogna correre, bisogna chiedere, chiedere, sempre chiedere? Secondo te come ho fatto io a campare la famiglia? A pagarti il mangiare, i vestiti, gli studi? A farmi questa casa? A fare il possibile per rendere felice tua madre? A pagarle tutte le cure possibili?”. 

Caro figlio mio, che domande, lo sai, lo sai perfino tu! Sono riuscito a tirare avanti chiedendo chiedendo chiedendo, e sempre, in qualunque caso, ringraziando ringraziando ringraziando, facendo il carino, leccando il culo alla gente che conta, che poi, non si sa mai, sempre tenersi buona la gente che conta, tenersela vicino, perchè non si sa mai, e nel mucchio delle richieste, qualcuno che ti aiuta, qualcuno che ti fa il favore lo trovi. Come ho fatto a tirare avanti, mio unico figliolo luce dei miei occhi mio adorato? Muratore in nero e quattro mesi all’anno nella Guardia Forestale, grazie a quell’Onorevole del paese vicino che ho conosciuto durante alcuni lavori, quel pezzo grosso della Democrazia Cristiana che Sant’Uomo si è ricordato di me e mi ha messo nella lista e via per le colline siciliane a non fare un cazzo con la divisa della Forestale addosso, e ogni anno erano un sacco di soldi, e poi il lavoro a nero, niente da dichiarare, e così potevo prendere l’indennità di disoccupazione, e non mi poteva finire meglio, caro figlio mio allevato nella bambagia del mio amore, che non ti è mai mancato niente, e tutto apposto, e ci siamo fatti il mutuo, e una bella casa, con due balconi e luce dovunque, e tu hai avuto cibo, vestiti, andavi a scuola. E siamo una famiglia felice, e non siamo mai stati male. Tutto per questo! Tutto per questo! Capisci, ragazzo mio? Io alla tua età già avevo da parte i bei soldini! Capisci ragazzo mio? Quando ti si rammollirà quella tua dannata testa? Quand’è che capirai? Ho sessant’anni e sono già in pensione, da un pezzo, e ogni mese faccio la fila alle poste e lo Stato mi versa i soldi e io prendo quelle carte in mano, frusciante denaro, benedizione di Dio, caldo tampone per le ferite della vita, prendo quelle carte in mano e ancora non mi par vero, non mi par vero che arrivano soldi senza che io debba sudare, sporcarmi, martellare, scavare, rompere mattoni, stare ore e ore inginocchiato tra la polvere. È la felicità, figlio mio, capisci? È la felicita, questa, e alla felicità ci sono arrivato chiedendo chiedendo chiedendo! Cosa aspetti tu, porca miseria? Cosa aspetti tu maledetto bastardo figlio dei miei lombi, corrotto in nonsoqualemomento della tua vita, corrotto irrimediabilmente schifosamente, essere ributtante, lurido mostro prodotto dal mio seme che hai lasciato per strada qualcosa di fondamentale. La dignità! La realtà! L’intelligenza del mondo che sta fuori quella tua cazzo di testa che tu agiti adesso con fare così altezzoso ignavo spocchioso. Come se fossi un grand’uomo che può permettersi di non calare la testa per campare. Ma chi cazzo ti credi di essere? Maledetto figlio di puttana!