I temi proposti da voi

Questa pagina raccoglie i temi che ci hanno proposto
 le persone incontrate al Salone del libro di Torino
 il 12 maggio 2012




Tema: "Quella volta che sono morto"

questo tema è stato proposto da MT e a lui, o lei, dedicato

Svolgimento


La prima cosa che ho pensato è stata: “tutto qui?”
La seconda: “che idiota”!
Dopo tutto quello che ho fatto per evitare di finire in qualche casistica sulle morti del sabato sera - le famose “stragi” giornalistiche che tanto eccitano i gazzettieri di provincia - finirò a riempire quella delle morti casalinghe. Magari nel sotto capitolo “vittime del fai da te”.
Ma cosa mi è saltato in mente di bloccare il comando del trapano con del nastro adesivo? Ah giusto! Volevo aver più libertà di movimento per le mani mentre me ne stavo in cima ad una scala con degli infradito ai piedi e in boxer, a cercar di appendere delle mensole. Un quadretto inquietante. Che idiota. Mi ripeterò, ma è proprio quello che sto pensando.
Sul resto in effetti avrei poco da aggiungere. Non ho sentito alcun dolore. Anzi: ho vissuto quegli istanti come se non ne fossi io il protagonista. Come se la punta del trapano non stesse entrando nel mio costato destro finendo col perforare un polmone!  A proposito di polmoni. Anche loro in questo modo hanno evitato di finire in una casistica ben peggiore: vittime del fumo! Magra consolazione.
Dopo di che ho atteso diverse ore. Non saprei dire esattamente quante perché me ne stavo col volto riverso sul pavimento e l’orologio era fuori dal mio orizzonte visivo. In quello ci stava solo del sangue raggrumato sul linoleum. Orrendo pavimento. Avrebbe dovuto essere l’altro compito della giornata: studiare come ricoprirlo. Al sangue non avevo minimamente pensato. Ogni tanto sentivo squillare il telefonino. Magari mi cercava qualche amico. Ho sperato che qualcuno si preoccupasse. Però ero solito sparire ogni tanto, rendendomi irreperibile. Avrebbe dovuto squillare ancora a lungo prima che qualcuno iniziasse a farsi assalire da pensieri funesti. 
Intanto i miei, di pensieri, non si davano pace: quello che mi angustiava di più era lo spettacolo che avrei dato ai primi soccorritori. Un poveraccio con un trapano conficcato nel torace, ai piedi di una scala, ricoperto dal proprio sangue e da una mensola in legno che mai avrebbe trovato la sua giusta collocazione.
Mezzo nudo per giunta. Con dei boxer imbarazzanti che nessuno vorrebbe farsi trovare addosso. I morti non dovrebbero provare vergogna. Eppure eccomi qua. Mi ripetevo come un mantra “idiota”, “idiota”, “idiota”. E tra l’uno e l’altro mi enumeravo tutti gli altri possibili imbarazzi a cui sarei andato incontro da lì ai prossimi giorni. La casa in disordine avrebbe dato un bel da fare a chi si sarebbe occupato delle mie cose, dei miei abiti, dei miei libri, dei cd, dei dvd. Speriamo che i miei amici si ricordino di tutte le volte che ho chiesto loro di far sparire tutta la pornografia sparsa nelle librerie prima dell’arrivo di mia madre! Povera donna. Voglio risparmiarle un improvviso cambio di considerazione del figlio: dal bravo ragazzo, studioso e autonomo, al cretino incapace con una fissa per il sesso di gruppo! Indubbiamente eccitanti per me, ma non so quanto per la donna che mi ha messo al mondo e che ha tutte le rigidità di una madre classica: ammesso e non concesso che ci siano madri diverse.
A proposito di rigidità, inizio ad avvertire certe durezze agli arti. Ottimo. Ora la posa plastica in cui ho dato l’ultimo saluto al mondo diventerà anche quella con cui sarò trasportato all’obitorio. Ce ne vorrà prima che rompano questo simpatico rigor mortis!
Ho letto una volta che si tratta, in sostanza, di una modificazione della struttura muscolare causata dalla degradazione di adenosintrifosfato (sostanza di cui al momento ignoro la natura), che ovviamente dopo la morte non può essere rigenerato poiché sono cessate tutte le attività vitali. Che me la sia tirata da solo a leggere certe cose?
Mi sento le gambe di legno. Ed inizio ad aver freddo. Già, l’ ipostasi. Non si può certo dire che non mi fossi preparato all’evento. Ho sempre avuto una curiosità quasi morbosa rispetto agli accadimenti delle prime ore dopo la morte. Una delle tante curiosità che ho coltivato in vita.
Col cessare della circolazione il sangue si deposita nelle regioni declivi del cadavere e riempie i vasi del derma facendo comparire nella cute una colorazione rosso vinosa. 
Per come sta messo il mio cadavere avrò macchie ipostatiche un po’ dappertutto. Neanche un laccio ad ostacolare alcunché, a parte l’elastico moscio dei boxer: quante volte li ho messi in lavatrice a novanta gradi. 
Quando arriveranno per recuperarmi dovranno pure fare dei rilievi. Delle fotografie. Perfetto! Resterà in questo mondo, sul pc di qualche ispettore di polizia e qualche perito proprio una bella immagine di me.
A proposito di immagine di me, mi è venuto un colpo! Come se non bastasse quello che mi ha portato in questa situazione. Per un attimo ho immaginato ancora mia madre alle prese con delle fotografie che stanno nascoste in un cassetto del mobile in salotto. Perché sono così idiota? Spero solo che le trovino prima i miei amici. Hanno un indubbio vantaggio temporale su di lei, che ha i suoi chilometri da fare prima di arrivare a casa mia. Un viaggio a cui, per fortuna, non assisterò. Poveretta. 
Ma quanto ci impiegano? Che ore saranno? Sto iniziando a congelarmi. Devo essere uno spettacolo davvero inquietante.


Ci siamo.
Ho avuto la peggiore spia possibile: un odore acre e penetrante che ha rovinato la giornata dei vicini. Hanno aspettato un paio di giorni, se non ho mal interpretato il susseguirsi di luce e buio, prima di chiedersi dai balconi cosa fare. 

“Sarà un topo morto in cantina?”
“Dici? Io laggiù non ci vado però…mi fanno impressione quelle bestie”
“Cosa credi sia meglio, aspettiamo che torni tuo marito?”
“Sicuramente. Però che odoraccio. Quanto grosso deve essere quel topo?”
“Cosa hai usato per lavare quelle tende? Guarda che belle lucide che son venute…”

L’ambulanza è arrivata che ancora quelle tende stavano appese ad asciugare. Hanno chiamato il proprietario dell’appartamento e questo, dopo l’atto di coraggio alla ricerca di bestie nell’interrato, si è risolto a farsi venire dei dubbi sull’inquilino dell’ultimo piano. Io. Poco dopo l’ambulanza sono arrivati i carabinieri. Hanno fatto firmare un documento che comprovava l’effettivo possesso dell’appartamento con tanto di autorizzazione a sfondare la porta, e alla fine mi hanno trovato.
Parecchie mani alla bocca, qualche espressione attonita e qualcuna incuriosita, dopo di che sono diventato il temuto soggetto di una serie di scatti fotografici alquanto invadenti. Primi piani insistiti sul viso, sul foro d’ingresso del trapano nel costato, sui fianchi coperti di sangue rappreso e qualcuno persino alla scala. Anche tra gli agenti della scientifica si può nascondere un fotografo con ambizioni artistiche.
Quella scala sarà il monumento involontario alla mia stupidità!
E adesso? Intanto mi sono lasciato sorprendere dalla cura con cui mi hanno maneggiato. È incredibile se ci pensate a quanta attenzione mettano nel trasportare un morto, il quale, anche se gli sbattete la testa nello spigolo di un mobile, non avrà da lamentarsi.
Qualcuno ha messo mano al cellulare e sta rovistando nella rubrica: non credo che chiameranno “marco slave” o “sandra stronza”. Si concentreranno su “mamma”. O magari, anche lì, avranno l’accortezza di fare una minima ricerca sul numero che ho più chiamato o sull’autore del maggior numero di sms ricevuti. Speriamo in bene. 
Che idiota! Non finirò mai di ripetermelo!

E adesso? Adesso inizio davvero ad essere curioso.

Gianluca Meis




Tema: "La mia prima volta al Salone del Libro di Torino"

Questo tema è stato proposto da Marusca Caputo, ed è a lei dedicato.

Svolgimento:

Che ci vuole. Che ci vuole a capire che nel posto in cui lavori, in quella multinazionale multi mangiasoldi, la gente muove cose, gira i posti, passa le carte e nessuno fa niente. E quanti soldi! Federica è sempre stata sveglia e poi è carina, gambe lunghe, magra, tanti capelli ricci e neri. Mani piccole, mani da diva. “Ci starebbe bene un brillante, sul quel dito affusolato” butta là ogni tanto l’ingegnere. Ma Federica è così sveglia da fare finta di non capire. E lui è un brav’uomo, e non insiste. Tanto ha la Carla, la Francesca e la Simonetta, e le accontenta tutte, tutte. Tutte a brillanti e cotillons. Federica invece è tenuta in grande considerazione per gli acquisti, che l’ingegnere fa spesso on line. “Che ne dici, di questa borsa di Gucci? Piacerà alla Carla?” “Sì sì, no no”  : Federica conosce ormai i gusti di tutte. E non sbaglia un colpo. Così diventa la responsabile. Degli acquisti dell’ingegnere, si capisce. Ogni tanto c’è qualcosa anche per lei, che è così una brava ragazza. E, visto che è fidata, può agire direttamente: il capo le passa la carta di credito. Tanto non è il suo conto. No, non è neanche il conto della società. Non è il conto di nessuno o forse è il conto di tutti, dato che ci vengono pagate le cose più disparate. Forse è di quel signore che prima era assessore in comune e adesso consigliere alla regione. Sono tanto amici, con l’ingegnere. Chissà. Con quella carta Federica paga regali bellissimi, viaggi costosissimi, biglietti per i concerti. Un fiume di soldi. 
E ormai il suo lavoro è quello: far funzionare la magia della carta. Chi controlla? L’ingegnere non controlla. Nessuno controlla.
E’ colpa del computer tentatore. 
Federica ha appena prenotato per la moglie dell’amico dell’ingegnere il volo Torino – Dubai, ed ecco che passa la pubblicità dell’hotel più esclusivo del Lingotto. Ci va spesso, l’ingegnere, lui dice per lavoro. Federica non è mai stata in un posto come quello. Clicca sul sito, vede le foto.  
Benvenuti al Salone Internazionale del libro di Torino. Libri, scrittori e conferenze: benvenuti nel sogno di Federica. Le dita digitano le date per la prenotazione e il numero della carta che lei neanche se ne accorge.
Si sente ladra. Si sente eccitatissima e sporca. Poi, all’improvviso, diventa fredda e tranquilla. Prende accordi con la sua amica – vado a Torino solo per il fine settimana, è per lavoro, dormo da mia zia, stai tranquilla – le lascia le chiavi di casa e la tutela del gatto.

Con la carta ha pagato una giornata di trattamento di bellezza completo: di giovedì, giorno di ferie, tanto l’ingegnere non c’è. E i suoi capelli diventano biondo platino. Lunghi e lisci. Nemmeno il suo micio la saprebbe riconoscere. Un salto a ritirare gli abiti già ordinati e pagati: Gucci, Versace e Chanel. Scarpe Manolo e Jimmy Choo. Neanche li prova: ha una taglia standard e una fretta terribile. Aggressiva ed elegante, con bagaglio Dior e tacco 12 mai osato prima, dietro un paio di occhiali neri sale sul Frecciarossa Milano – Torino. 
Il giovane controllore strabuzza gli occhi. E ti credo. Manda perfino un sms a un amico, Federica se ne accorge, mica è scema. Quando scende dal treno sono in due o tre a guardarla, ma lei allunga la falcata. Le pare perfino che uno l’abbia fotografata con l’iPhone. Andate tutti a quel paese. Federica è furba. 
Dissimula e al tassista che fa il cretino risponde in inglese. Fottiti, scemo. Pagamento della corsa, purtroppo, in contanti.  
Alla reception smozzica qualche sillaba con l’accento americano che ha imparato ascoltando le conference calls dell’ingegnere, enigmatica e un po’ seccata. A fare gli onori di casa c’è il direttore. “Per la signorina, solo il meglio”, dice mellifluo, e timidamente la interroga sui suoi interessi di visita in città, mentre Federica invece si interroga sul potere infinito della carta di credito. Due inservienti intanto corrono a prenderle il bagaglio. Di nuovo, nel corridoio, una ragazzina le scatta una foto. Federica si ripara con una mano e procede verso la sua camera. A porta chiusa, non può fare a meno di lanciare un gridolino: è una suite piena di rose bianche, frutta e candele! Un po’ stranita, passa da una stanza all’altra, controlla il campionario dei prodotti di bellezza esposti in bagno (tutto Hermes), poi si getta sul letto e comincia ad avere paura.  
Sa di avere fatto la più grande stronzata della sua vita, che la licenzieranno, la denunceranno e le faranno pagare le spese. In cambio di due giorni al Salone del libro, sta buttando via la vita. Per non pensarci, disfa i bagagli. Sarà il caso di mettersi scarpe comode? Ci sarà da camminare un bel po’: è previdente ed ha studiato la mappa del Lingotto, senza capirci niente. Sa che ci sono delle grandi lettere appese in aria. Le basterà camminare con il naso all’insù, si consola. Comunque non sa dove andare. E neanche perché si trovi lì. Tanto vale. 
Decide per un ingresso in grande stile: stivaloni, trench nero di pelle, capelli tirati all’indietro con il gel ed enormi occhiali neri. Non sia mai che incontri pure l’ingegnere! Trucca la bocca di rosso rosso rosso e infila la porta che pare una centometrista.
Il direttore, proprio gentile, l’accompagna alla porta girevole. “C’è la sua auto”, le dice. Federica neanche si chiede a cosa serva un’auto per fare trecento metri, e, nell’abitacolo, due bestioni con i walkie talkie e l’auricolare. E poi tutta quella gente che la guarda, neanche venisse dalla luna. Per un attimo suda freddo, magari sono venuti a prenderla per portarla in prigione. Invece l’auto la lascia con dolcezza davanti a una porta secondaria. La calca è moltissima. Ce n’è di gente che legge: è il pensiero di Federica, commossa. 
E tutti sono così gentili, anche quel signore dai capelli bianchi, alto e un po’ magro, che le viene incontro, e si presenta “Sono Ernesto Ferrero, benvenuta, che bella sorpresa ci ha fatto, così all’improvviso” le dice compìto. Federica risponde stringendogli la mano in modo un po’ floscio e accennando un sorriso, poi lo saluta in inglese, e lui pare tutto contento. 
Uffa, chissà quando potrò visitare gli stand, pensa Federica un po’ seccata, ma l’anziano signore non la molla, la prende per un gomito e non la fa fermare “per di qua, per di qua, giusto un attimo da Mondadori". E lì c’è un ragazzo dal viso ombroso che si presenta un po’ schifato “Niccolò” le dice torvo, guardandole il tacco dello stivale. “A famous italian novelist” biascica il signor Ferrero “ci teneva a conoscerla, sa?”
Federica non fa in tempo a svenire davanti al suo scrittore preferito e identifica all’improvviso tutto quell’avvenimento come una cosa enorme.
Ma ormai è tardi.
Ormai i bestioni aprono la folla e la ficcano a forza in una grande sala gialla e centinaia di telefonini scattano e dietro le lenti scure i suoi occhi possono distintamente leggere uno striscione, improvvisato dai fan:

“WELCOME, LADY GAGA”.  

Roberta Lepri




Sez. Salone del Libro, i temi proposti da Voi - "Ciao sono un NERD! La mia giornata tipo."


Questo Tema è stato proposto  da
Samuele SemBosco, ed è a Lui dedicato



Mi Sveglio tra le scintille, il pigiama in acrilico color carta da zucchero attillato come la tuta di Super Pippo e vinto con i punti dell’Esselunga, rotolando tra le lenzuola felpate scoppietta e sfavilla come la coda della cometa di Halley.
Cerco gli occhiali sul comodino, senza  vedo la nebbia della Val Padana .
Nell’afferrarli con la  mano  sinistra formicolante ( c’ho dormito sopra piegata a 90° )  cadono nel piccolo spazio tra la struttura del letto e la rete.
Mi sposto per disincastrarli ma il mio peso li schiaccia. La stanghetta in plastica di tartaruga si spezza in 2 esattamente come il Russo voleva spezzare Silvester  Stallone in Rocky 3.
Mi alzo e vado verso il bagno,  inciampo nel gatto che sul tappeto  si fa il  bidet, sbatto  il mignolo sullo stipite della porta mentre il peloso bastardo mi azzanna stizzito la caviglia. Un male porco ma come Fantozzi in campeggio  non posso urlare.
Incerotto il dito e la stanghetta.
Dopo essermi  fatto la doccia  con  il Pino Silvestre, infilo  la canottiera  nello slip bianco a costine dell' AGT che mamma mi compra in offerta 3x2  al mercato, infilo il calzino di spugna bianco  che a sua volta indossera' un  mocassino marrone.
La colazione la faccio seduto, devo contare  gli 83 corn flakes necessari a fare 20gr di carboidrati del mattino. Faccio sport nonostante sia un NERD, lo faccio ovunque. Ieri ho saltato una transenna bianca e rossa  in mezzo alla strada che delimitava dei lavori in corso, non ho resistito, ho preso la rincorsa e SPLAT  sono caduto lungo e tirato come un sacco di patate. C’ho riprovato perche’ non posso sbagliare, e ora sono tutto scorticato come un maiale.
A scuola siedo nel primo banco, ho sempre la mano alzata, a differenza dei miei compagni conosco tutte le risposte: “Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?”  “Bianco, Signora Professoressa “.
Mi impegno molto sui libri e nello studio, meno nei rapporti sociali.. sono un solitario ma anche i brillanti piu’ costosi lo sono.
In prima liceo ricordo di essere stato usato come cancellino per tutta la giornata del  14 febbraio, quando per festeggiare  San Valentino scatta  la caccia al “primino”.  Le lavagne delle  classi e sezioni, dalla 1°A alla 5 C furono cancellate in persona da ME. Tornai a casa bianco e  impanato come un filetto di platessa nella farina, mamma ebbe un mancamento quando mi vide , pensava che le statue della Gipsoteca vicino a casa avessero preso vita.
Dopo la scuola torno a casa e faccio tanta matematica, mi piace incrociare i numeri, moltiplicarli dividerli, invento equazioni di ogni genere e modello, oltre a macchinari come ad esempio lo spulcia gatti  magnetico, o  la bottiglia che suona quando l’acqua sta per finire.La piu’ bella invenzione è stato il copri water che spruzza profumo ogni volta che ti siedi .
Con le ragazze non va niente bene, sono innamorato di Domitilla ma al suo compleanno ho  bevuto tanta coca e rum per trovare il coraggio di dichiarami ma alla fine, ubriaco, le  ho vomitato addosso la pizza rossa e i pop corn ormai molli.
Sono un NERD ma lo era anche Billy Gates,un giorno potro’ avere tutte le ragazze che vorro’ ed inventero’ i cancellini elettrici.
La sera prima di dormire recito a memoria come un mantra le tabelline: 2x2 , 3x8 7x5, fino a quando l'ultimo neurone smette di trasmettere e si accuccia vicino ad un 10 e lode.

Anna Wood




"I tuoi viaggi più belli"

Questo tema è stato proposto da quattromura


Sicuramente gli ultimi. O forse i primi.
Quando un viaggio è bello? A me di guardare la torre Eiffel dal basso mentre ritagliava il cielo in rombi non me ne fregò molto, e manco di arrivare al primo ring di Vienna partendo dalle montagne e giungendo al centro della città solo dopo aver goduto di diversi panorami che intercettavano gli spigoli del campanile di Santo Stefano dai quattro punti cardinali. E Sidney la prima volta mi parve Londra d’estate mentre Londra – d'estate – mi sembrò Blow up, di Antonioni, ma senza gli attori. Di NY apprezzai i barboni che dormivano nelle aiuole, di San Francisco la furberia con cui un amico, dando 30 dollari al cameriere, riuscì ad ottenere un tavolo da Scoma’s scavalcando una fila enorme, dell’Hertfordshire i pomeriggi quando uscivo con le matite e gli acquerelli. O le sere, di ritorno dalla lavanderia a gettoni, quando il cielo era sangue di bue.
Nei viaggi sono contento di trovare qualcosa di me che non sapevo fosse lì, e lo sono doppiamente se lì lascio una persona con cui ho scambiato dei pensieri senza poi chiederci l’indirizzo di casa.
I più bei viaggi sono quelli che, quando li ricordi, si appannano di nebbia e si formano tante stelline come se qualcuno te li rielaborasse con gli effetti speciali di Photoshop.
E ci sono viaggi che apprezzi per la bellezza dei luoghi o per l’afflato della compagnia – tanto da diventare il cast di un film in cui tutti conoscono la sceneggiatura ma non il finale; e i viaggi nei libri. Sono reduce da Yonville: i sussulti della Rondine per andare a Rouen, le passeggiate in campagna con Emma Bovary,  i suoi scontri verbali con la Bovary madre, gli incazzamenti per le chiacchiere dello speziale Homais. A Yonville ho odiato il viaggiatore, i luoghi della visita, le persone incontrate, i discorsi ascoltati, le rivelazioni sulla turpitudine e sulla pochezza dell’umanità.  Ma non Flaubert, un vero low-cost che ti evita le lungaggini del check-in, i trasferimenti da aeroporti di periferia verso il centro della città, la ricerca di un alloggio, i panini veloci tra una visita ed un’altra (e non che alloggiare in un Hilton e prendere la prima classe cambi qualcosa).
Perché dei viaggi – che sia tu a spostarti oppure no, che i posti visitati abbiano valore paesaggistico o architettonico -, mi piace il racconto, il diario, mi piacciono le parole (la respirazione in luoghi distanti da casa no).

Giorgio D'Amato


La fisica e la chimica applicate alla cucina


                                                                       Questo tema è stato proposto da Alessio . e a lui dedicato




Siamo onesti: per accendere il fuoco sotto un pentolino d’acqua non serve un genio, basta avere il gas. Per metterci dentro due uova non occorre molto, al massimo aver presente che è meglio levarle dalla confezione. La cosa si fa più complessa quando interviene il fattore tempo, quello di cottura beninteso, che è quel fattore che ti fa la differenza tra un uovo à la coque, uno bazzotto e un uovo sodo (a parità di metodo di preparazione). Il gradino successivo è la temperatura dell’acqua: rigorosamente a 95° per preparazioni chic come le uova in camicia, le quali con un tempo di cottura maggiore diventano oeufs mollets. Questo perché la fisica è uno degli ingredienti base della cucina di ogni paese, ceto e gruppo etnico; lo è in maniera discreta ma immanente, è talmente presente che non ce ne accorgiamo e i più cucinano senza averne la consapevolezza. Entra in gioco anche la chimica, ma questa giocherà un ruolo principe in una branca specifica della scienza culinaria. 

Auguste Escoffier, Brillat-Savarin, Pellegrin Artusi, Livio Cerini di Castegnate, Ugo Tognazzi danno tutti delle regole precise per cimentarsi in un esperimento di fisica applicata che sarà presentabile e appetibile solo se riusciremo a realizzare un perfetto equilibrio termodinamico: il soufflé. Partiamo da elementi tutti rigorosamente a temperatura ambiente, sia che facciamo un soufflé di cioccolato sia che ne facciamo uno di tartufi, ossia il processo non varia se la preparazione è dolce o salata. Fondamentale è, se si parte da una base di purè di patate aver l’accortezza di lasciarlo intiepidire prima di aggiungere i rossi d’uovo, che si incorporeranno uno per volta perché un bravo sperimentatore sa bene che non bisogna variare più parametri assieme nel corso di un’esperienza di laboratorio. La fase successiva prevede la sbattitura delle chiare d’uovo per ricavarne una neve densa e fermissima: ci si può sbizzarrire sull’utensile da utilizzare per farlo, c’è chi ottiene risultati migliori con una semplice forchetta, chi si sente un po’ più sadomasochista e le frusta di gusto, chi invece è più tecnologico e adopera uno sbattitore elettrico. L’operazione di incorporare le chiare montate a neve all’impasto è di una delicatezza estrema, richiede un grado di mano ferma e gentile pari a quello che si dovrebbe avere maneggiando i seni di una monaca. La successiva fase richiede un ambiente, in questo caso un forno, perfetto: la cottura del soufflé dev’essere una trasformazione adiabatica, e qualsiasi infinitesimale variazione di temperatura imprevista farebbe irrimediabilmente smontare il preparato come una chioma cotonata anni ’80 in una raffica di Bora di Trieste, che per l’appunto è un vento catabatico. 

La fisica pervade la cucina e la chimica la segue, in alcuni punti molto discretamente, ma è nella pasticceria che gli spettri di Antoine de Lavoisier, Amedeo Avogadro, Jean Gay-Lussac e Giulio Natta aleggeranno sempre attorno allo sperimentatore. I maestri gelatieri in particolare sono ampiamente debitori di Gay-Lussac, che per primo ideò un sistema di graduazione per stabilire la densità e il peso specifico dei liquidi; suo figlio spirituale da includere nelle preghiere della sera di qualsiasi novello Procopio Cultelli o Tortoni de noialtri è Antoine Beaumé, il padre dei gradi omonimi che indicano, secondo precise tabelle, la percentuale di un soluto in un solvente: il liquido sciropposo che faremo diventare gelato di frutta dovrà misurare circa 20° Bé (gradi Beaumé) quando lo andremo a mettere nella gelatiera, il tutto a temperatura ambiente, ossia una media di 15° C, con un minimo di 8° e un massimo di 22°. Lo sciroppo di zucchero che tanto si usa è un preparato di densità circa 36° Bé, fatto sciogliendo 1,5 kg di zucchero in un litro d’acqua: è meglio farlo a freddo, anche se è un’operazione lunga e laboriosa degna di un amanuense, si evita che lo zucchero scurisca e che si trasformi parzialmente per effetto del calore e della bollitura. 

Nelle preghiere serali di cui sopra è d’uopo includere la grande Caterina de’ Medici, che insegnò ai civilissimi Francesi l’uso della forchetta, l’amore per il caffè e li mandò in visibilio con gelati e i sorbetti. Caffè e sorbetti, però, in Italia in generale e in Sicilia in particolare non giunsero da Firenze ma dal bacino del Mediterraneo: arabi e persiani usavano fare bibite al gelo, sorbetti, gelati, granite. La parola “sorbetto” deriva dall’arabo “scherbetldy”, che era un funzionario addetto alle bevande ghiacciate di sultani e califfi… e qui chiudiamo la parentesi storica. 

In realtà, la scienza regina che regge la cucina non è la scontata gastronomia, non è la fisica, non è nemmeno la pignolissima chimica della pasticceria: è vecchia come l’universo e ne abbiamo coscienza da quando i primi ominidi tracciarono dei glifi sulla roccia, è la magia. Magia di quella vera, non una semplice idea fantasiosa da favola: chi di noi non vorrebbe poter agitare un po’ le mani in aria urlando “Scial Scial Scialanda” e far apparire dal nulla una cena completa per dodici persone? La magia consiste, semmai, nell’operare con dei materiali esigui (una scatoletta di ceci, una di fagioli e una di pelati) per trasformarli tramite l’applicazione di una volontà ferrea (la nostra) usando le proprie energie, originata dalla connessione personale con il divino (per esempio divinità come Annapurna, Dagda, Brigantia hanno energie legate al cibo e al sostentamento), catalizzata dalle erbe adatte (dalla cannella alla menta, al prezzemolo all’aglio, alle olive con le quali è fatto l’olio, e così via) e sostenuta dalle energie dell’acqua e del fuoco, per arrivare all’obiettivo di servire a quattro persone una cena improvvisata di sapore orientale, mettendo in tavola un curry di fagioli e humus che non tradiscano il fatto di non essere figli di legumi freschi, magari grazie ad una fascinazione. Parola di strega! 



Mauro Melon



L'Evoluzione


Questo tema è stato proposto da Mattia C. e a lui dedicato



Cosa abbia provato è assai difficile da descrivere. Forse impossibile vista la mancanza di precedenti, di esempi a cui richiamarsi o qualcuno anche solo per parlarne in cerca di comprensione.
Posso solo raccontare che quella mattina mi svegliai agitato. Una agitazione mai provata prima. Guardavo tutti con sospetto e da tutti mi sentivo osservato e giudicato, per non dire la disapprovazione che leggevo negli sguardi incrociati e difficili da sostenere. Nonostante questo la mia attrazione verso gli altri era insolitamente forte. Mi rendo conto che questo racconto è vago, impreciso e del tutto confusionario, ma è quello che provavo. Mi muovevo indifferente in ogni direzione e non c'era nulla in grado di darmi pace. Avevo fame ma nessun cibo mi saziava. Lo stesso accadeva con la sete. Gli sguardi dei miei compagni si trasformaro in curiosità fastidiosa. E d'improvviso successe. Fu un attimo. Pochi istanti che da soli riuscirono a darmi una pace incredibile. Una Pace mai provata prima. Tra lo stupore di tutti mi riprodussi! Un altro me: identico, preciso. Lui, forse più gentile, forse solo più incosciente, mi salutò. Poco dopo, intorno a me fui inondato di saluti, ossequi, era tutto un indistinto vociare di "buongiorno" e "bentrovato"...Era tutto un accalcarsi, un intorcigliarsi in cerca di spazio.

Chi si dava un gran da fare e chi si lasciava trasportare dalla situazione che si stava venedo a creare. Pudore ed intimità divennero concetti estranei. Qualcuno cercava di governare il traffico sempre più convulso. Altri iniziarono a proporre di condividere alcune funzioni e altri ancora iniziarono a raccontare qualcosa che non riuscivo a comprendere. Di colpo mi sentì obsoleto, del tutto privo di strumenti che mi permettessero di comprendere quello che stava accadendo. Quello che era già successo. Gruppi di nuovi me provarono a salire sopra altri gruppi che si stavano differenziando celermente: quello che stavano facendo mai nessuno l'aveva visto prima. Misero una parte escrescente del loro neonato assemblamento all'interno di una rientranza dell'assemblamento opposto...e poco dopo vidi prodursi un terzo assemblamento che aveva caratteristiche del primo e del secondo senza più nulla che mi ricordasse o che facesse pensare che tutto fosse uscito da me, in una mattina di irrequitezza. Cosa succederà non lo saprò mai purtroppo. Gli organismi unicellulari come me vivono poco, é risaputo.

Gianluca Meis


I Rettili



Tema proposto da "anonimo"...ma lo stesso a lui dedicato

Il kobra non è un serpente
Ma un pensiero frequente
Che diventa indecente
Quando vedo te
Quando vedo te
Quando vedo te
Quando amo ... da da da da


Lo ammetto: la prima cosa che mi è venuta in mente pensando ai rettili è il refrain di “ Kobra”, una canzone di trent’anni fa cantata da quella pazza scatenata di Donatella Rettore, una specie di David Bowie “de noantri” che ormai è entrata di diritto nell’almanacco delle icone gay in qualità di Befana onoraria.
Da quando è riemerso serpeggiando dai meandri del passato, questo tormentone non mi lascia più in pace e la mia corteccia cerebrale non fa che vibrare al ritmo infernale dello ska psichedelico degli anni ottanta.
Batto il tempo e canticchio. Il corpo fluttua e dentro cresce una frenesia cieca. Mi ritrovo a seguire a ritroso una bava lucente di ricordi e il filo torto del pensiero incomincia a vibrare, come una lingua biforcuta davanti alla preda.  

Il kobra si snoda, si gira, m'inchioda
mi chiude la bocca, mi stringe e mi tocca.
Wow! Wow! Il kobra! Ah! Wow! Wow! Il kobra! Ah!
Prendo a dimenarmi come una furia nella stanza. Ossessiva. Da quanto quel Kobra non danza più? Mi muovo alla ricerca di una coreografia dentro i miei spasmi passati, quando lottavo per trovare un senso al mio malessere. Ecco, ora mi vedo:
Sono seduta in un’anticamera buia. Rimugino pensieri confusi e ce l’ho col mondo intero. L’ultima volta che me ne sono uscita di qua, ero un fascio di nervi e piangevo. Nemmeno dopo l’ennesima seduta ero riuscita a venire a capo di nulla. Entro e, senza guardare il mio analista, mi allungo sul lettino. Si era deciso durante l’ultima seduta di adottare la classica posizione freudiana perché non riuscivo proprio a parlargli guardando quei suoi occhietti inespressivi trincerati dietro lenti da speziale dell’Ottocento. Non sopportavo quella supponenza e quella totale mancanza di empatia. Ogni volta, mi fissava assente, seduto alla scrivania in attesa di perlustrare il mio cervello. 
- Ha qualche sogno da raccontare?
- Mi tolgo gli occhiali e il mio sguardo comincia a fluttuare come una bolla di sapone. Faccio resistenza. Non ci riesco a cambiare pelle. A togliere le inibizioni e a vivere finalmente la mia vita o, perlomeno, a enunciarla. Parto con le solite esitazioni, giro intorno a me stessa alla ricerca di un approdo e non trovo che accessi sbarrati. I pensieri si fanno intricati e le mie parole, come becchini, a scavare badilate e badilate di caos, dissotterrando il loro nulla. E più parlo più mi accorgo che le parole davvero ti uccidono. Poi un silenzio prolungato e insopportabile. Eccolo il teschio, una folla di vermi.... Vago nell’ombra e non sento che un fetore di morte. 
– Ha provato a tenere un diario dei sogni che fa?
– Sì, dottore, sogni ne faccio molti e anche a colori, così nitidi poi da sembrare in 3D– Sento che ormai non posso più tergiversare. Quel sogno è impresso nella mia mente fotogramma dopo fotogramma. Non devo far altro che proiettarlo di nuovo.
– Ecco… ehm… ho sognato un serpente gigantesco, era giallo e nero. Non finiva mai e la cosa strana era che risaliva un fiume controcorrente, con un’andatura lenta e maestosa. Io lo guardavo dalla sponda del fiume ed ero più estasiata dalla bellezza di quella visione che impaurita. Mentre lo descrivo, il cranio ottuso e canuto dell’analista diventa una gorgone avvolta dalle spire del rettile. D’un tratto la stanza si riempie di sibili e fruscii.  
– No, non ho paura dei serpenti, o meglio, non mi fanno schifo. Dei ragni invece ho un terrore assoluto. Ancora ricordo quel sogno ricorrente che facevo da bambina. Un ragno gigantesco sotto il mio letto e io che mi svegliavo di soprassalto urlando. La mia mano impigliata nella rete del letto e il mostro risucchiato in fondo alla notte. Che tormento!
Lo psichiatra mi guarda in silenzio e poi inizia a rassicurarmi. Anche stavolta la cavità della sua bocca piccola e curva non fa che riflettere un vuoto chiacchierone … Comincio a innervosirmi: e che cavolo ci sto facendo qui? A ripitturare di fresco questo sepolcro imbiancato? E intanto la mutazione reclama il suo mutuo. Ok, tutto deve cambiare perché nulla cambi … Ma tanto, se sei un pomodoro, quello rimani – avevo letto da qualche parte di un filosofo che rimetteva in questione tutta la psicanalisi. Evviva! Da qualche parte ci sarà un’altra vita, un altro mondo, un'altra galassia. E io, invece, qui a marcire in questo loculo – D’un tratto mi accorgo che l’ora a mia disposizione è già trascorsa. Sono rigida e madida di sudore. E anche stavolta piango, di rabbia. Una signora in sala d’attesa mi lancia un’occhiata furtiva. Infilo la porta e mi getto tra i vicoli per la città alla ricerca di un angolo dove respirare.

Dopo la solita dose di Xanax e i sospiri nel letto, un altro sogno. Sono immersa in un mare cristallino. Nuoto nuda e con me ci sono molte altre persone. La luce è intensa e i colori di una brillantezza quasi irreale. Ricordo lo smeraldo dell’acqua e la scogliera bianca inondata di sole che taglia l’orizzonte alle nostre spalle. E’ una baia incastonata in una foresta. Ovunque macchie di verde e giallo nel silenzio assoluto.
Non me sono accorta subito ma, alzando lo sguardo, vedo una sagoma gigantesca profilarsi alla mia destra. E’ un Tyrannosaurus Rex. Più in là, altri dinosauri nuotano indisturbati e io fra loro. Non ho il benché minimo senso di panico, solamente una sensazione di assoluta armonia.
Credo di non aver mai provato nulla di più magico e infinito nella mia vita reale e diurna. La settimana dopo eccomi di nuovo al cospetto dello speziale, impietrita nell’agonia dell’attesa.
- Prego, si accomodi. 
Entro titubante nella stanza semibuia. Anche questa volta con una sensazione di sconfitta e un greve senso di colpa. Vedo le mie ansie e le mie fobie aggirarsi come spettri in una cattedrale. Il serpente continua a fissare il mio ubi consistam, muto e ieratico. Tellurico.
Sento i suoi occhi verdi che mi fissano da ogni angolo, in attesa di un verdetto. Poi un sibilo:

Là i serpi sveston le smaltate pelli/che son perfette vesti per le Fate”.  

Come sono brava. Ricordo Shakespeare a memoria. Ma non riesco a farne il consueto soliloquio. Afasia e pesantezza. Non ce la faccio più. Osservo i quadri appesi alle pareti e li trovo di pessimo gusto. Saranno costati un occhio della testa, penso tra me e me. Mi manca l’aria e ho un’improvvisa voglia di correre. Ma non faccio in tempo a incazzarmi o a imprecare che sento una strana sensazione sulla pelle, un calore che scioglie quella pellicola che mi ha avvolta da sempre, stretta come una memoria di latex. Sono finalmente nella dark room. La mia paura vacilla. Il colore dell’ombra sta svanendo in una cascata di colori. Ora nel mio strusciare, la piccola morte si prende il mio essere. E non c’è bisogno che io parli per esprimermi. Ora piango e basta. Ancora e ancora. Ma è un pianto diverso. Un pianto di umori e fiori. Alla fine della seduta, mi alzo e saluto l’analista con una calma del tutto nuova. Fuori, nel salottino di velluto rosso, mi aspetta la mia Fata Morgana. Prima di uscire, mi affaccio allo specchio e mi ritocco il rossetto, strizzandole l’occhiolino.
Esco senza voltarmi indietro. Ora sono Euridice e non vedo l’ora di salire sul carro della morte lenta e scatenarmi con lei come una baccante.
Vengo inghiottita da un corteo di gente  mezza nuda che si dimena su carri allegorici. Tutti cantano Kobra. Ah, già quest’anno la madrina del Gay Pride è Rettore.

Bea Ary

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