mercoledì 11 dicembre 2013

Tema: Ristorante Manchukuo.

Svolgimento

C’era qualcosa di rancido, nell’odore dell’aria, quando entrammo da una porta doppia a vetri fumè. La sala immersa nel buio la intravedemmo a stento, e ci guardammo. La decisione di entrare, comunque, era presa. Procedemmo con una certa fatica, e avanzando era come scendere in profondità. Sotto il pavimento io percepii chiaramente dell’acqua
- L’acqua. La sento -
- Quanta ce n’è, stavolta? - mi chiese.
- Poca, uno strato sottile. Qui sotto è tutto vuoto. Ma è solidissimo, il vuoto, non c’è da avere paura. Regge tutto il ristorante.
Distratti da un riflesso guardammo in fondo alla sala, e scoprimmo un bancone ricoperto di specchi. Malamente illuminate da quei bagliori una donna di una certa età e una più giovane ci guardavano immobili, senza distrarsi.
Il ristorante era vuoto, oltre a noi non c’era nessuno. La ragazza ci sistemò in uno dei tavolini quadrati addossati alla parete. Era già apparecchiato per noi con un’incerata marrone e una tovaglia bianca, stirata da una pressa industriale. Ordinammo cucina cinese, ma anche tenpura giapponese, che mangiammo lentamente, facendo scricchiolare una crosta sottile di escrescenze che il cuoco aveva esploso in padella, e all’interno scoprimmo una piccola luce, del pesce brillava di un bianco innaturale. Mentre lo mangiavamo ci guardavamo in silenzio. Le due donne intanto guardavano noi, e a un certo punto l’anziana si staccò dal banco.
- E’ buonissimo - le dissi.
- Usiamo ingredienti che non sa nessuno. Molta gente viene apposta da noi, anche da fuori, partono anche da molto lontano. La sera siamo pieni. Allora apriamo la sala “Giappone”.
- Ah, allora questa è la sala cinese -
- Cina, sì. Venga, le faccio vedere -


Mi alzai, la seguii. Mi fermò con la mano quando arrivammo sulla porta di una stanza buia.
- Resti lì, accendo le luci, - mi disse andando in fondo alla sala. Poi tornò e si posizionò accanto a me, come se dovesse cominciare qualcosa. 
Mi accorsi subito che nella stanza c’erano persone invisibili. Erano tutti anziani, seduti uno accanto all’altro su un piccolo divano deformato. Ero stata io a suscitare il loro interesse e a richiamarli lì. I ristoranti li intrigavano. Il cibo in genere. Il fatto che io mangiassi. Ridevano spesso, ma erano risate brevi e rapide, ridevano con una certa impazienza, stando attenti a non sprecare tempo. Le teste erano pallide luci, e furono le prime a cominciare a muoversi con cautela, dopo venne tutto il resto. Si alzarono con grande lentezza e in successione, le donne esibendo i loro abiti vecchi e sfarzosi, in stile occidentale, gli uomini affiorando in mezzo ai pizzi delle signore, facendo uscire piccole teste da colletti smilzi e da giacche svuotate, che sembravano non contenere nessuno. Le facce erano scorze leggere che filtravano la poca luce. La loro memoria era qualcosa di luminoso e floscio sospeso sopra le loro teste, a cui loro cercavano inutilmente di collegarsi. Una donna anziana disse qualcosa, e intanto la sua voce si indeboliva al centro, come formando una sacca, dove si depositavano parti di quello che diceva, che non riuscivo a sentire.
Anche se non fossi riuscita a vederli, avrei dovuto ammettere che in quella stanza c’era qualcosa di vivente. Si capiva dalla forte umidità dell’aria. La sala aveva l’aspetto torbido di un fondale, e immaginai che l’acqua, là sotto, doveva riversarsi in piena. I vecchi parlavano di quando erano giovani e tutto era fertile e rigoglioso. Mi veniva da prostrarmi.
- Che ne dice? - mi chiese la ristoratrice. Non capivo a cosa si riferisse. Sentii lo scarico dell’acqua provenire dalla parete accanto. Non smetteva, come se fosse rotto. La sala in realtà era di uno squallore assoluto, ma mi complimentai con lei per il buon gusto.
La donna mi lasciò lì ancora un po’, poi, appena trascorse un tempo che ritenne sufficiente, si mosse e io capii che la visita alla sala era finita. Mi distolsi e tornai al mio tavolino come tornassi al lavoro.
La ristoratrice aveva fretta di prenderci le ordinazioni, benchè a noi non si fossero aggiunti clienti. Poi tornò a prendere il suo posto al bancone, questa volta sistemandosi davanti allo sportello di vetro di un frigobar. La ragazza ci portò altre pietanze e mentre le disponeva sul tavolo io mi misi più composta sulla sedia. La donna più anziana si mosse allora con me, uno spostamento impercettibile davanti al vetro del frigorifero e vidi brillare dietro di lei piccoli lampi di luce polare. Si lasciava illuminare la schiena da gelati e bevande ghiacciate. Allora li immaginai insieme, lei e il frigorifero, in mezzo alla steppa battuta dal vento della Manciuria. 

Per chilometri non si vedeva nient’altro. Una doppia presenza del tutto naturale, in virtù, ne ero convinta, di una preesistenza. Entrambi, la donna e l’elettrodomestico, si erano guadagnati a caro prezzo il diritto di essere lì. All’orizzonte, in fondo, il sole tramontava dietro montagne piatte. La ragazza giovane asciugava i bicchieri a calice. Stringeva lo strofinaccio attorno allo stelo ruotandolo con una certa forza, a mio parere eccessiva. Era chiaro che fosse sicura di quello che faceva. A intervalli la ristoratrice dalla sua postazione le gettava un’occhiata senza espressione, come guardasse con sospetto un distributore automatico di pasti caldi. Dall’altra stanza si sentiva rumore di stoviglie. Immaginai il cuoco destreggiarsi in uno spazio angusto piastrellato di bianco, compiere movimenti precisi e rapidi intorno al lavello e ai fuochi e stare attento a non indietreggiare troppo per non sbattere contro gli scaffali della parete opposta. In un angolo in alto di quella cucina c’era una finestrina a vasistas, da cui non si vedeva nulla, ma il pezzetto di grigio visibile bastava a scatenare nel cuoco una nostalgia profonda.
Ecco cosa alla fine le due donne mi ricordarono: due grossi quadri di comando elettrici che avevo visto mentre su un tapis roulant raggiungevo il gate di un grande aeroporto. Durante lunghi lassi di tempo erano come quiescienti, mandavano solo brevi luci ad impulsi, per attivarsi solo in caso di allarme.
Si mise a piovere. La ristoratrice fece una smorfia di disappunto. Il cielo non si occupava di lei e lei ne era seccata. Qualcuno l’aveva ingannata di recente, o informata di un fatto. Nella steppa intanto tirava un vento freddo. Gli inverni erano rigidi ma c’era una certa dolcezza dovuta alla presenza delle acque e al passaggio di certe perturbazioni calde provenienti da sud, ma piucchealtro alle tradizioni che riguardavano la mobilia delle case: il kang, dove erano ammassate coperte riscaldate da un braciere, era il posto dove si svolgeva gran parte delle attività quotidiane, ma servì anche durante l’occupazione straniera per nascondersi e scampare ai nemici. La steppa era il paesaggio più congeniale alla ristoratrice. Era qualcosa di sconfinato, il posto che le si adattava meglio. Non le anse fertili di un fiume, o, peggio, il territorio a sud, così umano; a lei piacevano il freddo e il silenzio delle grandi estensioni, dove tutto è uguale a se stesso, dove niente avrebbe potuto turbare la quiete di cui poteva godere, finalmente.
Alla fine del pranzo, prima di pagare e andarmene, dovevo andare in bagno. Chiesi alla ragazza, che mi indicò un cortile da attraversare. Pioveva piano. In mezzo al cortile, coperto di ghiaia fine che scricchiolava sotto le scarpe, c’era una piccola pozza di acqua torbida, racchiusa da un cordolo di tegole infilate per terra in verticale. L’aria era pesante e umida, e si mescolava all’odore di frittura che veniva dalla cucina. Nella pozza nuotavano alcune carpe sbiadite. Si muovevano lentamente da una sponda all’altra trascinando barbigli e brandelli di pelle sfilacciata. Accanto alla pozza c’era un carrello di supermercato. Dalla sommità del muro che delimitava il cortile vidi le estremità di pali elettrici e cavi della corrente, i tetti di alcune case basse vicine, e, sopra, un groviglio di antenne e parabole di diverse dimensioni. Il resto del cielo era occupato da nuvole scure. Pensai che, inquadrati dall’alto in mezzo a quel quartiere di periferia, in quel giorno di pioggia, io e la persona con cui stavo avremmo potuto sembrare vicini, quasi indistinguibili. Addossata al muro, accanto al bagno, c’era una fila di sedie uguali a quelle della sala giapponese, ma ognuna aveva qualcosa di rotto o sbilenco, una gamba, un sedile, uno schienale. Mi sembrarono tutte riservate, e avevo voglia di sedermi lì per un po’, accanto a qualcuno che doveva arrivare. 

Maria Rita Battaglia

7 commenti:

  1. Com'è misterioso questo racconto, pieno di fumi, atmosfere umide e fantasmi! Come in certi film orientali di autore, lo stesso senso dell'attesa, il tempo che pare compresso, i gesti che si fanno preziosi. La cifra di Maria Rita è questa, e a me piace moltissimo.

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    1. Grazie Roberta, un tuo commento è puntualmente di grandissimo incoraggiamento per la mia scrittura.

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  2. Anche a me è piaciuto tantissimo., è surreale e suggestivo. Una scrittura particolare. Accoglierti rende armonioso un blog come questo. Bravissima.

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  3. per un po' mi ha fatto dimenticare la TARES e tutto il resto. So che capisci che voglio dire. non è poco. Francesca.

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  4. Stampato, letto e gustato. Complimenti per la capacità di osservazione e puntigliosa descrizione.
    Felice Muolo

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  5. Gran bell'evocare questo racconto. Rischi di perderti come frigo nella steppa a gustarti tutte le pietanze del menu, come la voce che, indebolita al centro, forma una sacca, e vi si deposita parte non ascoltata o le carpe dalla pelle sfilacciata o quei vasistas che sputano buio rincuorante. Secondo non si deve pagare poco. E chissà se danno la ricevuta fiscale al Manchukuo o chiedono loro, proprio alla fine, la restituzione di tutto il sogno. Magari come mancia.

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  6. L'aggettivo per me è "inquietante", io in questo ristorante non ci metterei piede per niente al mondo. Mi dispiace un casino però rinunciare a quella frittura croccante descritta così bene. Brava. (emoticon in pastella)

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