mercoledì 30 novembre 2011

Tema: Successo, trionfo e fortuna le carte hanno detto per me.

Avrò avuto più o meno 5 anni quando i miei genitori decisero che era arrivato il momento fatidico. C’erano anche i miei cugini invitati per l’occasione. Pizza e Coca Cola e la torta gelato anche. C’era uno strano fermento nell’aria, eccitazione quasi. Il Tg1 manda i saluti e gli auguri di una buona serata. Alle 20.30, negli anni ottanta la prima serata aveva inizio a quell’ora, tutti schierati davanti al televisore. Il mio battesimo al mondo della televisione seria per bambini e ragazzi ha inizio. I miei cugini seduti a terra, io nella mia sediolina, mia sorella in braccio a mio padre. Da quella scatola nera una più che mai sfavillante Marina Morgan dà il via alla serata “Va ora in onda…”. Eccoci. Un sussulto riordina le posizioni scomposte degli astanti, invitati da un corpulento volteggiare di mani di mia nonna “Lo sceneggiato «Le avventure di Pinocchio» di Luigi Comencini, con…” e ci invitò a passare una buona serata con i suoi denti di un biancore accecante ed una acconciatura che aveva fatto fuori almeno tre bombolette di lacca. Già dalle prime note di quella bellissima colonna sonora di Fiorenzo Carpi sentivo qualcosa che si muoveva dentro, alla fine dello sterno e prima della pancia. Ero sicuro che non era la pizza e neanche la Coca Cola a dare quest’effetto. Nel salotto aleggiava un silenzio surreale, guardavo stranito tutta la mia famiglia che era attaccata con un filo a quell'elettrodomestico trattenendo il respiro. Iniziano quelle atmosfere malinconiche e cupe, quei colori sbiaditi e autunnali. Il gelo. E quel tronco che si muove da solo e poi parla. Era la fine. Lo sentivo, non ce l’avrei fatta. Mi alzo di scatto in preda al terrore, abbandono tutti e scappo a letto stringendomi il cuscino attorno alla testa, per non sentire la televisione di là in salotto. Ho rivisto lo sceneggiato più o meno all'età di 20 anni, prima non ce l’avrei fatta. Pinocchio ha segnato irrimediabilmente la mia infanzia e, visto che sono al mio secondo post nel quale parlo di lui, credo tutta la mia vita. Togliete quell'espressione di pietà dai vostri visi. Vi riflettereste sullo schermo ed è come se la faceste a voi stessi.


Apro parentesi. Da bambino mia madre decide di parcheggiarmi in un nido. Per carità, fantastico e bellissimo e tutto quanto, e tutt’ora sento con una certa regolarità le mie maestre che chiamo zie. Ma di cose per bambini ne ho fatte davvero poche. Le mie maestre erano troppo avanti, delle alternative. Le passo brevemente in rassegna. Naturalmente darò loro un nome fittizio  per la privacy e tutto il resto. Adalgisa: tipico donnone mediterraneo dal sapore lievemente felliniano, addetta alla cucina, amava (e ama tuttora) cantare a squarciagola; Ginevra: donnina esile dai lineamenti squadrati e naso all’insù che la rendeva particolarmente sprezzante, non era di certo la mia preferita; Roberta: donna slanciata con delle fantastiche meches biondo platino, non andava d’accordo coi miei budini al cioccolato; Elisa: donnina agile e particolarmente buffa con occhiali spessi che le facevano gli occhi piccoli piccoli, lei mi adorava e io adoravo lei; infine Andrea: era l’addetto al pulmino che suonava il clacson ogni mattina alle 8.30 davanti casa mia, me lo ricordo sempre coi capelli bianchi e gli occhi azzurro cielo, alto e slanciato.
Noi non imparavamo le classiche canzoncine “all’asilo si sta bene e si imparan tante cose”, no. E neanche “tu scendi dalle stelle al freddo e al gelo”, neanche per idea. Le mie maestre erano brave e sapevano che queste cose non si fanno. Non puoi insegnare ai bambini le canzoni scritte per i bambini. La cosa è risaputa. All’età di 4 anni io conoscevo a memoria tutte le canzoncine di “Indietro tutta”. Non fate quelle facce. E soprattutto non fate dietrologie su miei possibili traumi. La mia psicoterapeuta si è arresa. Erano anni d’oro quelli, mica come adesso! Renzo Arbore e compagnia bella avevano rivoluzionato, con lo zampino di un ignaro Umberto Smaila, un’intera nazione. I loro jingle erano diventati dei tormentoni e avevano infierito notevolmente sulla frivolezza già acuta di quegli anni. Tornavo a casa canticchiando “vengo dopo il tiggì” e “di giorno m’ammoscio ma la notte no”. Vi giuro, è così. Io c’ero e sono sopravvissuto per raccontarvelo. Adalgisa, la felliniana, era una fan di Gabriella Ferri. Fu lei che mi insegnò, alla veneranda età di 4 anni e mezzo, l’intero testo di “Zazzà” (che io mi scervellavo per capire chi fosse sta tizia che sotto i fuochi di artificio scappa e non si trova più, e mi dispiaceva che non tornava più!) e quello della meravigliosa “Sempre”. Roberta, quella con le meches, era invece fan di Giuni Russo; che gioia cantare insieme “cha cha cha della segretaria, successo, trionfo e fortuna le carte hanno detto per me”! Elisa, quella che adoravo, mediava molto bene. Era la più visionaria del gruppo e metteva in scena delle piccole situation comedy. Da dentro un baule tirava fuori stoffe e parrucche e costruivamo insieme una storia. Io amavo le parrucche, soprattutto quelle bionde, e i tessuti con stampe cachemire che in quel periodo erano il top. Le mie maestre erano delle alternative. Ricordo che per una recita di fine anno mi misero addosso una pelle di leopardo, mi disegnarono dei baffi lunghi e attorcigliati e mi diedero in mano un bastone di legno al quale erano fissati due palloncini rossi. Ero l’uomo forzuto. Dovrei avere una foto da qualche parte. Non la guardo da anni. Sarà in una di quelle scatole di latta dei biscotti Lazzaroni. Durante quella recita io dovevo alzare quel bastone di legno facendo finta che pesasse davvero. L’applauso finale decretò il mio imperituro successo. Sbarcai in prima elementare e comunque andai alla recita finale dell’anno dopo la mia dipartita da quel paradiso. Mia sorella si esibiva. Aveva un abito rosa cipria lungo fino ai piedi ed un turbante in tinta con diadema. Sostenuta da due suoi compagni interpretava un brano dal sapore nostalgico. Non credevo ai miei occhi. Avevano trasformato mia sorella in Wanda Osiris. Crepavo di invidia.
E mentre i mie cuginetti, cresciuti dalle suore, sapevano tutte le poesie di Natale con protagonisti bambinelli, madonne, asinelli, pastori stanchi e re, sfoggiando anche un certo ventaglio di preghiere dedicate a certi esseri alati che chiamavano angeli, io ero costretto a cantare sulla sedia “ove sta Zazzà oi maronna mia” o “limonata cha cha cha”. Che tempi che erano quelli. I miei cuginetti mi trovavano figo, io mi sentivo un disadattato, mentre mi ronzava in testa “cacao ma che gustao”. Mia madre non mi aiutava per niente, anzi andava fiera di un figlio così contemporaneo. 

Grazie mamma, grazie maestre, grazie Gesù, grazie Renzo Arbore e Marisa Laurito. Sentitamente. Vi ringrazia anche la mia psicoterapeuta che ha  estinto il suo mutuo.

Vito Bartucca


3 commenti:

  1. viva i disadattati che cantano Zazzà!!
    Meis

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  2. Bello Bartucca! l'ho letto tutto d'un fiato senza bisogno di appellarmi al BIGNAMI :)

    Tu sei rimasto traumatizzato da PINOCCHIO, io invece dalla BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO . Ancora adesso non voglio sentirla raccontare e nemmeno voglio leggerla.
    Ancora ricordo quando, piccoletta ma gia' rotonda come una palla , ho letto che strappavano il cuore a qualcuno..bhe' questo episodio mi ha molto impressionato. E ogni volta che penso alla favola ho in mente un cuore strappato e sanguinante.


    p.s forse è questo il motivo per cui esco dal cinema se i film sono particolarmente violenti ?

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  3. Voglio un trauma anche io! vi pare giusto che grazie alle vostre destabilizzazioni infantili voi scrivete un sacco di post belli e io invece nisba di nisba?
    bene, scriverò una cosa du palle sulla mia infanzia felice
    GD
    PS: che nessuno si prenoti per lanciarmi un corpo contundente

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