martedì 13 marzo 2012

Sez. Favole - Tema: Raperonzolo


"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli, che per salir mi servirò di quelli"

Freddo e muto, il chiarore dell’alba avanzava lento, ricamando riflessi polverosi sulla superficie opaca dei battenti. La stanza ancora semibuia era affollata di incubi e solitudine. La silente oscurità dei pensieri minacciava anche quel giorno di accecarla. Clic. uno sguardo alla sveglia. Non erano nemmeno le 5. La luce livida del neon, impietoso, le dissezionava l’anima mentre lei si rigirava nel letto. Da quando Raperonzolo aveva smesso di sognare, quel minuscolo appartamento era diventato la sua camicia di forza, il perimetro della sua follia. “Non voglio più vivere, non voglio, non voglio più…lasciatemi morire in questa torre”. Con tutta se stessa cercava di ricacciare i bagliori del giorno nel cieco dolore che le aveva persino tolto le lacrime per piangere. Dalla strada provenivano voci e scalpiccii, il consueto anonimo brusio quotidiano della città al risveglio, ma attutito dai tappi di cera. Un silenzio ovattato in cui Raperonzolo, sempre più spenta, moriva. 
Ogni volta che l’angoscia le strizzava il cuore, allungava una mano e apriva il frigo, lo sguardo perso nell’ennesima sconfitta, la sconfitta della rinuncia. Poi, come una barbona, si ritrovava a frugare i rimasugli di una vita solo parzialmente abbozzata. I dolcetti erano quasi finiti. Avrebbe dovuto farsi forza, inforcare un paio di lenti scure e andare alla pasticceria all’angolo. Di solito ci andava all’orario di apertura, quando era certa di non incrociare molta gente.

Frettolosa e schiva, ritornava a casa col suo bel vassoio di paste che avrebbe consumato voracemente nell’attesa della notte. Non le sembrava mai di riuscire a colmare quel vuoto, un vuoto che sapeva di vomito e sforzi tanto violenti quanto vani. Non ci riusciva a cacciar fuori quel mostro.
Mentre ingoiava l’ennesimo bignè per soffocare il dolore, l’incipit di una canzone le martellava ossessivo nel cervello: “Che cos'è l'amor /chiedilo al vento /che sferza il suo lamento sulla ghiaia…”. Quel motivo le ricordava il suo bel principe, l’unica persona che avesse mai amato davvero e che ora vagava ramingo per lande desolate e spoglie, dopo aver disperatamente lottato per riconquistarla. Stordito dallo strazio, ferito a morte e quasi cieco, il principe solitario ora rincorreva solo miraggi, fasci di luce che gli ricordavano i bei capelli dorati della sua Raperonzolo. I magici momenti di beatitudine e felicità che avevano trascorso insieme riverberavano violacei nella sua mente, come brandelli di carne putrescente. Una spietata e assurda mannaia aveva mozzato il loro tempo , strappandoli per sempre l’uno all’altra. Quante volte si erano amati in quello scroscio primordiale e cristallino che proviene dal cuore. Un tempo che lei ormai riviveva solo tra spasmi e deliri notturni. All’alba, sfibrata, annegava la coscienza in poche gocce amarognole e gelatinose, nella speranza di non rivedere più la luce.
Purtroppo, quel sentimento così vero era morto, fatalmente avvelenato da una strega cattiva e bitorzoluta. Proprio come nelle favole. Quella stessa strega cattiva che ora abitava in lei e che, per punirla, aveva deciso di negarle per sempre la felicità. Subdola e impercettibile, la vecchia arpia si era impossessata della sua mente con semi di mandragola, gettandola per sempre in pasto ai rimorsi. Fu così che i bisbigli d’amore si tramutarono presto in continue liti e dialoghi tra sordi. Un muro di silenzi urlanti si erse tra i due amanti, frantumando le loro parole in tanti echi senza senso. La barriera cresceva e cresceva a dismisura, finché un giorno i due non riuscirono più a capirsi. I loro discorsi erano ormai una palinodia d’amore; la loro alcova, un tempo colorata e allegra, solo un tetro e angusto loculo. Il principe, sempre più derelitto, provava tanta pena per la sua amata Raperonzolo: che orrore vederla tramutata in una vecchia megera, acida e biliosa. Più provava ad amarla più lei lo respingeva come la peste bubbonica. Il principe non poteva far altro che cercare di starsene lontano per serbare le forze e trovare un rimedio a quella sciagura: Raperonzolo era ormai divenuta una donna a lui totalmente estranea. Invano e sempre più fiaccato, cercò di farla tornare in sé, urlandole disperato quanto l’avesse sempre amata e voluta per quel che era e basta. Ma quale Raperonzolo? Ormai anche il principe, sempre più esangue, vacillava nel dubbio. Inevitabile come la notte, la fine del loro amore fu annunciata da una civetta in volo. D’un tratto, l’aria tra i due amanti si addensò miasmatica e fetida, mentre i loro corpi si consumavano in un ultimo innaturale amplesso. Fu la catastrofe finale: colta da una furia d’erinni, un giorno la strega cattiva brandì le forbici agitandole come una mannaia sopra il patibolo. E così, attimo dopo attimo, urlo dopo urlo, quei biondi capelli scintillanti caddero morti al suolo come lacrime d’odio. Era lei, Raperonzolo, che li aveva recisi. Li aveva recisi per impedirsi di amare e per impedire al suo principe di poterla salvare.
Questa è la triste storia di una donna che aveva una bestia nel cuore, quella bestia si chiama
incapacità di amare.
 

BA

6 commenti:

  1. eheheh, Raperonzolo aveva saputo che il capello lungo non andava più di moda... un taglio sbarazzino, "me li faccia a Pulcino!" - disse al parrucchiere.

    GD

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  2. Ara, è toccante. Fa anche un po' male, in verità.

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  3. @ Roberta: vengo anch'io!!!
    @ Mauro: grazie...
    @ Giorgio: Raperonzolo ora è una skinhead
    ;-)

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  4. bravissima. non aggiungerei nè toglierei nulla, è perfetto.

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  5. Ma che tristezza!! Bisogna dire a Raperonzola che deve metterci anche un po' del suo se vuole guarire. Nessuno ti regala na mazza! tirarsi a lucido come una Porche e uscireeeeee anche solo per fare la spesa!!

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