Oslo non mi piace. Non che io ci sia mai stata. Ma non mi piace a priori.
Non mi interessa. Troppo fredda. Troppo cara. E soprattutto troppo schematica:
tetti spioventi, case tutte uguali, troppi giardini, troppo verde. A me il
verde non piace, in genere dico. Troppa luce di giorno e troppo buio di notte.
Almeno credo. Gli uomini. Tutti biondi con gli occhi azzurri, bianchi bianchi,
cianotici, troppo alti, lavati. Degli stoccafissi appunto. E le donne? Tutte
alte altissime, seni accennati, gambe lunghe quanto la A 1 e quelle micro gonne
indossate anche con meno 10. False, falsissime. Stoccafisse anche loro. Chissà
se sanno di pesce. Gli uomini o le donne dico. Puzzeranno? In genere quando
cucino il pesce apro porte e finestre. Accendo anche un paio di candele alla
vaniglia. Non mi piace l’odore del pesce e neanche il pesce a onor del vero. Come
pietanza dico. E neanche come animale. Non sono razzista e ci tengo a
specificarlo. Mi piace di più il vino bianco che, come sempre ci hanno docilmente
istruito chef e sommelier, col pesce si sposa benissimo. Se vengo invitata a
cena e mi presentano quelle infinite, pompose e lussuriose portate a base di
gamberoni, seppie, calamari, cernie e vongole io non tocco cibo. Bevo. E mi
piace anche.
Una volta ad una cena bevvi talmente tanto che finii a letto con
uno sconosciuto. Era meglio che rimanesse tale. Cioè, lo conobbi a questa cena.
Aveva gli occhi azzurri che spiccavano tra teste di gamberoni e chele di
granchio. Ho bevuto solo catarratto, che non è la cataratta. Io ci vedo
benissimo. Anche quando bevo. I pesci venivano dal mediterraneo e il vino dalla
Sicilia. ”Il catarratto è un vitigno autoctono siculo”. Annuivo quando il mio
ospite mi parlava descrivendomi per filo e per segno portate e abbinamenti. Io
annuivo e bevevo. Mi spiegò tutto. Io ci ho capito poco ma va bene così, va
bene. In generale, dico. Aveva gli occhi azzurri. Ma non come un oslese o
oslaziano o oslonico…insomma come uno che arriva da Oslo. Lui era, o meglio
dire è visto che malauguratamente non è ancora morto, basso. Oddio non era/è un
nano ma sicuramente non era/è come uno che viene da Oslo. Né basso né alto.
Direi mediterraneo se non fosse per il fatto che era/è savoiardo. Discendente
dei Savoia. Gente brutta insomma. Io no. Io sono arabo-spagnola, post barocca a
tratti. Insomma quello sconosciuto lo conobbi quella sera alla terza bottiglia
di vino e alla quindicesima MS club. Avevo male ai piedi per quelle
stramaledettissime scarpe. 250 €. Messe 2 volte. Tacco 14. Maledette false
modelle di Oslo. In senso biblico lo conobbi. Mi accompagnò lui a casa e salì
da me. Da allora si trasferì in pianta stabile. Si chiamava Charles. Ho deciso
che d’ora in poi ne parlerò al passato. Non per augurargli qualcosa di brutto,
non mi permetterei mai. Ma perché mi va di fargli del male. Gratuitamente. Che
poi gratuitamente non direi visto quello che m’ha fatto quel bastardo di un
Savoiese. Non era ricco attenzione. Discendente della casata Savoia inteso come
categoria. Come atteggiamento e modo di essere. Un fighetto del cazzo insomma.
Dopo due giorni si trasferì da me in pianta stabile Charles.
È arrivato lo
scirocco. Sapevo che non avrebbe tardato. Ne avevo sentito le avvisaglie già da
qualche giorno. Charles se ne è andato stamattina. Così, senza nessuna
spiegazione ed io neanche ne voglio. Di spiegazioni intendo. La sabbia mi affanna la vista e l’ululare di quel vento
del sud mi stordisce i timpani. Altro che Oslo. Ho
lasciato la tavola apparecchiata come un altare. La tavola della nostra ultima
cena insieme. Conservo ancora i piatti sporchi tra i mozziconi di due candele e
un posacenere che dovrei decidermi a svuotare. Cose,
case, mani, narici, strade, luci, fiori, erba tutto si tinge di terra. Tutto ha
una patina rossastra. È re Mida che passa. Ad Oslo tutto questo non succede.
Non ci sono mai stata ma lo so. C’è ancora il suo bicchiere sul mio altare, sul
suo altare. Verso il catarratto nel bicchiere in cui ha lasciato l’ombra della
sua presenza. Lo Alzo insieme allo sguardo e, contro luce, cerco le sue tracce.
Bevo dalle sue labbra e il mio corpo si fa ebbro e molle. Col corpo fiacco
mi trascino fino alla fonte con le labbra tumide a combattere l’arsura delle
mie carni. Ho messo con cura le lenzuola
bagnate agli stipiti delle mie porte. È un’antica usanza araba. I savoiesi non
la conoscono questa usanza. Così il vento beffardo si incontra con l’acqua e
inumidisce la mia caverna. Mi abbandono senza forze e il suo alito mi sfonda la
nuca. Serro le porte, non entra più, non entri più. Bagnatemi le labbra. Se ne
è di nuovo andato.
VB
Proprio come Didone! Il prossimo che si presenta sguinzaglio il doberman...
RispondiEliminaR.L.
L'unica e' berci sopra,magari stavolta un rosso un po' corposo,per intenderci non meno di un 14'gradi.Sono sicura che in branda non cadra' piu' un Charles qualunque ma un intenditore. DIFFIDARE da chi beve bianco o solo bollicine,non e' mai troppo affidabile:)
RispondiEliminami piace questo racconto...
RispondiEliminaGD
stupita:)
RispondiEliminamatali oscar!
Io quando ti leggo ....riesco a vedere tutto ....le facce, i calici di vino, la patina della bottiglia, le stanze, la tavola apparecchiata, il posacenere pieno di mozziconi ...ed un uomo, di spalle ...che va via! Ti adoro.
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